Personaggi illustri di Pogliano Milanese.
(testi tratti dal sito della Comunità Pastorale Beato Francesco Paleari di Pogliano Milanese)
Francesco Paleari nacque a Pogliano il 22 ottobre 1863, in una casa nella via a lui oggi intitolata, al civico 27.
Educato in una famiglia autenticamente cristiana crebbe con un carattere sereno, gioioso e ben disposto verso tutti. L’8 gennaio 1877 entrò nel Seminario della Piccola Casa della Divina Provvidenza a Torino, fondata da San Giuseppe Benedetto Cottolengo.
Questo Seminario, posto sotto la protezione di San Tommaso d’Aquino e perciò detto “Famiglia dei Tommasini”, accoglieva aspiranti al
sacerdozio privi di mezzi economici. Si iscrisse al Terz’Ordine Francescano fin dai primi anni del suo chiericato.
Compiuti gli studi teologici con ottimi risultati, il 18 settembre 1886 fu ordinato sacerdote, a 23 anni, dal Card. Gaetano Alimonda, Arcivescovo di Torino.
Don Francesco, fin da giovane, fu incaricato di insegnare latino e filosofia nel Seminario dei Tommasini, e poi anche ai Missionari della Consolata, fondati dal beato Giuseppe Allamano di cui fu consigliere e collaboratore. Per più di 40 anni fu confessore e direttore spirituale del seminario diocesano e predicatore di esercizi spirituali. In tutto si mostrava animato dallo stesso spirito di carità del Santo Fondatore, che amava soccorrere ogni forma di povertà, materiale e spirituale, fidando in maniera sconfinata nella Divina Provvidenza.
Nel 1922 fu nominato Canonico della Collegiata della SS. Trinità di Torino; fu anche Provicario generale e Vicario per la Vita Consacrata dell’Arcidiocesi torinese.
Gli ultimi tre anni della sua vita furono segnati dalla malattia che però non gli impedì di esercitare la sua missione di confessore.
Si spense a Torino il 7 maggio 1939.
Proclamato Beato il 17 settembre 2011, la su memoria liturgica è celebrata il 18 settembre.
Quel 7 maggio 1939 cadeva di domenica. Monsignor Francesco Paleari comparve davanti a Dio nel giorno del Signore, quello che durante la vita aveva maggiormente celebrato con i santi misteri e illustrati con la spiegazione delle Sacre Scritture. “Quando ancora era insegnante di filosofia lo sentii io stesso dire che sarebbe morto sui 75 anni. E così avvenne…”, depose un teste al processo diocesano. Li aveva appena superati da sette mesi.
Così ci descrisse gli eventi legati alla morte del Beato, il nostro compianto compaesano don Luigi Crivelli nel suo libro su don Franceschino. Don Crivelli cita anche alcuni quotidiani dell’epoca che riportarono la notizia della morte del Beato facendo già emergere la straordinarietà di questo prete. L’edizione torinese del quotidiano L’Italia descriveva don Paleari come colui che “aveva consacrato tutta la sua vita alla Piccola Casa e alla grande casa della Diocesi con lo stesso spirito del Fondatore, aggiungendovi qualche sfumatura della giovialità alla Don Bosco e distinguendosi in quell’apostolato del confessionale che santificò il Cafasso”; La Stampa il maggior quotidiano torinese scriveva: “un grande lutto ha colpito la Piccola Casa della Divina Provvidenza ed il clero torinese con la scomparsa di Mons. Paleari. Era circondato da universale stima ed affetto per la sua dolcezza, la sua alta e schietta spiritualità, per la sua grande saggezza. Molti sacerdoti ricorrevano a lui per cercare consiglio sicuri di trovare un padre affettuoso”. E così il Popolo della Sera e persino L’Osservatore Romano lo ricordarono in quei giorni.
Appena morto una frase girava di bocca in bocca nella Piccola Casa ma anche in tutta Torino: “Il prete santo del Cottolengo è spirato!” e una fiumana di gente anche sconosciuta si avviò al Cottolengo per dare l’ultimo saluto. Entravano tutti: Vescovi, preti, suore, giovani e anziani, ricchi e poveri. Non chiedevano altro che vedere ancora una volta quel piccolo prete che li aveva aiutati nella loro vita.
I funerali si svolsero il 10 maggio presieduti dal cardinale di Torino di allora Mons. Maurilio Fossati, presenti i Vescovi di Biella, Prato e Pistoia. Nell’omelia il cardinale disse: “Pensando alla sua vita sempre tanto operosa, alla sua umiltà, al distacco da ogni cosa terrena, alla letizia che sempre portava sul volto e comunicava a quanti avvicinava, alla serenità con cui sopportò la sua lunga ultima infermità, non è vero che tutti abbiamo invidiato la sua morte? Eppure nulla ha fatto di straordinario, ma giornalmente, dalla sua prima Messa alla morte, egli ha speso i suoi talenti e il suo tempo per il bene altrui, da buon sacerdote”.
Anselmo Ronchetti nacque a Pogliano il 5 ottobre 1773 da Carlo e da Lucrezia Gianni, originari di Busto Arsizio. Gli avi erano fattori dei marchesi Lucini; il babbo era falegname. Conobbe presto le angustie della vita e della miseria essendo rimasto orfano di padre mentre era ancora in tenera età.
Fece brevi studi a Gorla Minore al collegio Rotondi, dove lo si conobbe tosto dotato di fervidissimo ingegno, così sosteneva lo storico insigne mons. Castiglioni ex prefetto dell’Ambrosiana che ne discorre nel libro “Ricordi storici del collegio Rotondi nel terzo centenario della Fondazione”. Per il pane dovette lasciare il collegio e collocarsi come garzone presso un ciabattino del Carrobbio a Milano.
Nelle ore libere leggeva il Frugoni, uno dei più celebri poeti di quel tempo, ed il Segneri, il più grande predicatore del secolo XVII: sui libri di questi forgiò il suo animo.
Non trascurava altre letture e sapeva mirabilmente armonizzare la passione per lo studio con quella dell’umile lavoro e leggeva i più acclamati autori, sorretto da una non comune intelligenza che gli diede una vera cultura. Divenne così un uomo colto sì da poter intrattenersi anche con eminenti campioni della scienza, delle arti e delle lettere e da divenire lui stesso artefice inarrivabile con l’ideazione e creazione dei suoi “Ronchettini”, come li volle chiamare il famoso imperiale governatore di Lombardia Saurau.
Avvenne così che il negozio Ronchetti di via Cerva (allora contrada della Cerva) fosse ad un tempo meta di una folla di clienti e ritrovo gradito di persone elevate per ingegno e per posizione sociale, ammiratrici convinte della probità, dell’intelligenza e dello spirito di quell’uomo singolare. Da quella sua casa di via Cerva una modesta lapide, dettata da Carlo Romussi, scrittore e giornalista milanese, ammoniva:
“Anselmo Ronchetti calzolaio, in tempi di proficue adulazioni esempio di fierezza e di carattere, schietto animo ambrosiano, tenne alto il decoro del lavoro italiano, amico diletto di poeti e artisti – abitò in questa casa e vi morì nell’anno 1833”.
In questa casa vi conveniva una miriade di persone da tutto il Regno Italico, tanto era il fascino che emanava da essa. Oggi purtroppo di quei ricordi preziosi non rimane più nulla. C’era ancora nel 1923: casupola d’un piano (piano terreno e primo piano), dalle imposte verdognole, dalla porticina socchiusa, di fianco ad una chiesetta. Il tutto dava a quell’angolo provinciale e tranquillo il senso della buona serenità d’un tempo.
Cresceva il nostro Anselmo lavorando e meditando.
Passata la madre Lucrezia a seconde nozze, il piccolo vide intorno a sé allentarsi i vincoli di affettuosità e, come avviene in tali casi di allontanamento e isolamento, lo spirito si concentrò in se stesso, indagò nel profondo dell’io le ragioni del vivere e, col suo bagaglio di delusioni e di rimpianti passava dal botteghino del Carrobbio presso un certo Ponti, calzolaio di via Larga. Là si procurava il pane legato al deschetto da mane a sera, in una fatica umiliante. Pretese non ne aveva nella vita, per cui si mise da parte un bel gruzzoletto di denaro. E un bel momento concepì, da intelligente com’era, l’idea di dispiegare le ali ad un proprio volo.
Dopo pochi anni, alle cinque vie, contrada di Milano non più esistente crollata sotto il piccone rinnovatore, aprì un negozietto per conto proprio. Anselmo spiccava per i suoi modi gentili, cortesi, per il suo dire facile, per il suo grazioso lepore e per il suo carattere nobile e franco.
Con un prestito del prevosto don Nava (Gabrio Maria Nava), sacerdote di alti sensi diventato poi vescovo di Brescia, che amava il fanciullo e lo ammirava per il suo intuito sagace, Anselmo Ronchetti poté far fiorire la sua officina.
Dalle cinque vie passava alla contrada del Durino (oggi la zona di via Durini), avvicinandosi così alla Cerva (insegna di un’antica osteria) che doveva diventare, per merito suo, una delle contrade storiche di Milano.
Qui impiantò un negozio fiorente, tanto fiorente da destare invidia ad alcuni. Ed ebbe così amareggiato il successo dal fatto che malvagi gli spogliarono il negozio, ricco ormai di stivali, scarpette, pelli ed arnesi. Quel furto, che impressionò non pochi a Milano, riduceva il nostro Ronchetti in condizioni miserissime.
Passava quindi dal Durino alla Cerva, di fianco alla chiesetta di S. Stefano in Borgogna. Là riapriva i suoi battenti alla affezionata clientela riguadagnando frusto a frusto, con indomita costanza, quanto i ladri gli avevano rapito. Ma qui gli toccarono due altre sciagure: un incendio doloso e, dopo questo, un attentato alla vita e tutto perché la sua figura di artigiano onesto e laborioso ingigantiva ogni giorno più. Dall’attentato uscì incolume perché la provvidenza di Dio lo salvava sempre e ne rendeva sempre fecondo il lavoro, così da diventare il calzolaio più famoso di Milano.
Nel frattempo, il Ronchetti stringeva relazioni con persone nobilissime per nascita e per carica e la sua officina, come già abbiamo accennato, era diventata il ritrovo di scienziati, poeti, artisti, che amavano intrattenersi come in un gabinetto di lettura, come in una specie di club. E il Ronchetti approfittava di questi incontri per affinare il suo intelletto e arricchirlo delle più svariate cognizioni.
Presto quelle pareti umili, ma adorne di tanta dovizia di arte, dovevano essere particolarmente rallegrate.
Aveva preso alloggio nella casetta della Cerva (che stava a metà di via Cerva, come abbiamo già detto di fianco alla chiesetta di S. Stefano in Borgogna) un impiegato della Zecca, il Gambarelli, padre di una virtuosissima e assai graziosa fanciulla di nome Teresa. Anselmo si invaghì di essa e la sposava: da essa ebbe venticinque figli. “La mia Teresa – scrive il Ronchetti in una sua memoria – buon’anima, mi ha rinnovato venticinque volte il piacere di essere padre”. Alcuni dei figli compirono felicemente la carriera degli studi; tutti avviò ad onorata professione. Uno di questi studiò a Pavia con una borsa di studio avuta per interessamento di Vincenzo Monti. Ci fu tra di essi don Filippo, sacerdote zelante, e il maestro di musica, noto assai allora, Antonio. Di quest’ultimo, che era in relazione epistolare col parroco di Pogliano don Francesco De Bonis, si conserva in archivio parrocchiale di Pogliano una bella lettera scritta in data 7 ottobre 1863 al parroco stesso, che vale la pena di trascrivere:
“Molto rev.do sig. Curato,
appena morto l’amato mio babbo – decesso che avvenne il 19/8/1833 in Milano – nato a Pogliano come Ella ben sa nel 1773 avendo per genitori Carlo Ronchetti falegname in Pogliano e Lucrezia Gianni di Busto Grande, mi venne il pensiero di radunare quanto più potevo documenti, onde tesserne poi una biografia che comprovasse coi fatti (anco ai posteri) la fama che il celebre calzolaio Ronchetti seppe acquistarsi durante la sua vita. Ora queste testimonianze di stima e di affetto che sommi artisti, letterati, grandi, sovrani, ecc. tributarono a mio padre, trovansi depositate alla Biblioteca Ambrosiana, e spero che presto uscirà alla stampa una storia istruttiva per il popolo a cui serva di esempio, come ogni via anche la più umile, sia aperta al bene, quando vi concorre la fermezza nel volere, l’onestà e il buon uso dei talenti. Era pure mia intenzione di donare un ricordo al suo paese nativo, ed ora realizzo questo mio voto offrendo in proprietà alla sagrestia della chiesa di Pogliano alcune incisioni di argomento sacro. Qui a tergo troverà la nota del soggetto della stampa e il nome dell’incisore. Quando la S.V. e la rispettabile Fabbriceria siano per favorirmi un atto di adesione, si compiacciano di indicarmi con qual mezzo io debba spedire la cassa contenente i quadri. Non lascerò di anticiparle una mia determinazione, ed è che, se avrò la sorte di conservare quel poco di fortuna che a forza di fatiche oneste, ho saputo accumulare, ho disposto che alla mia morte siano istituite delle beneficenze annuali ai terrieri del Comune di Pogliano per malati bisognosi, e dei premi alla solerzia ed alla virtù. In aspettazione di una sua risposta mi creda con la massima stima V.S. devotissimo servo.
Maestro Antonio Ronchetti”
Segue l’elenco delle incisioni:
Il parroco con altrettanto degna lettera rispondeva accettando le proposte anche a nome dei Fabbriceri il 12 ottobre 1863. Firma del parroco Don Francesco de Bonis e dei tre Fabbriceri: Remartini Natale, Pogliani Costantino e Paleari Angelo:
“Pogliano, 12/10/1863
… eterna – dice il parroco tra l’altro – sarà la memoria e la riconoscenza verso l’illustre donatore e questa chiesa avrà la sorte di possedere un dono di uno dei più celebri artisti di Milano quale fu Anselmo Ronchetti, nato e battezzato in questa parrocchia nel 1773”.
Nel turbine napoleonico abbiamo qualche fatto assai notevole che giova ricordare.
Scrive Gino Giulini nel suo libro “Arcobaleno di vita gioconda” (pag. 139) che quando entrò in Milano nel maggio del 1796 Napoleone, tra la folla dei curiosi accorsi ad ammirare il fulmine di guerra che riempiva di sé il mondo intero, si trovava anche Anselmo Ronchetti. (L’episodio è narrato anche dallo storico Lodovico Corio in una memoria “Milano durante il primo Regno d’Italia” – pag. 393).
Il Ronchetti non fu attratto dagli occhi fulminei (dice lo storico insigne mons. C. Castiglioni nella sua “Storia del Collegio Rotondi di Gorla Minore”) come il Manzoni – donde poi “i rai fulminei” del suo “Cinque maggio” – ma dal piede di quell’aquila grafogna e concluse e disse con se stesso: “Nessuno in Milano al par di me potrebbe calzare il grande Napoleone”.
Prese la misura di quel piede ad occhio e qualche giorno dopo si presentava al Generale offrendogli un paio di stivali alla dragona talmente perfetti da avere premio e lode. Napoleone, lodando assai Anselmo Ronchetti per l’eccellenza della sua arte si dilettò di interessarsi a fondo di lui e ne fu così entusiasta da assicurarlo che da allora sarebbe sempre stato il suo calzolaio preferito, e gli donò 40 luigi.
Il fatto, che in un lampo venne conosciuto da tutta Milano, riuscì di immenso vantaggio al nostro Ronchetti.
E come avviene in simili circostanze, dopo tale attestazione di stima e riconoscimento, i più alti dignitari della corte napoleonica si rivolgevano al Ronchetti, ormai divenuto il più noto dei calzolai di Milano e anche dell’Europa specialmente dopo questo episodio.
Sia detto anche quest’altro aneddoto: avendogli un giorno chiesto Napoleone, che tanto ormai ammirava il nostro Ronchetti, di quale dipartimento egli fosse, gli rispose con tutta franchezza: “Sono italiano”. Napoleone, meravigliato per tanto ardire, replicò tre volte la domanda e quegli sempre con franca semplicità: “Sono italiano”. E quel grande, maggiormente ammirando Anselmo Ronchetti, disse: “Vorrei avere intorno a me molti uomini che ti assomigliassero!”.
Uno stivale si conserva al museo Trivulziano, così attesta il conte Alessandro Giulini, cultore di tradizioni milanesi. Dice lo stesso Giulini che questo stivale stava presso i figli don Filippo ed Eugenio: era uno stivale alla aragona, di pelle nera, lavorato a cucitura inglese, avente punta molto acuminata, portante sopra il tallone una “N” tracciata con lo spago… ordinato e calzato da S.M. l’Imperatore l’anno 1805 – epoca in cui si recò in Italia, a Milano, per la sua incoronazione.
Questo stivale era stato custodito dal Ronchetti in un apposito ripostiglio da lui chiamato “il sepolcro dei sovrani”, ove deponeva i modelli delle loro calzature dopo che erano estinti e che egli mostrava ai visitatori con religioso rispetto. Alla morte del padre i suddetti figli vollero che quel cimelio napoleonico tanto caro al babbo, passasse al museo Trivulziano, così ricco di preziose antichità e ne attestarono l’autenticità con atto notarile e dicendosi pronti a questa attestazione in qualunque momento con giuramento davanti a qualsiasi temporale.
Il 30 ottobre 1822 si aprì il Congresso di Verona dei principi europei dopo la morte di Napoleone. A tale convegno erano presenti l’Imperatore Francesco II d’Austria con la consorte, l’Imperatore di tutte le Russie Alessandro I, il re di Prussia, il Granduca di Toscana con la Granduchessa, il Duca di Modena, i reali di Sardegna, il Re delle Due Sicilie, i ministri Metternich e Wellington, con gli astri maggiori della diplomazia e cole seguito di Generali, ecc. divenendo così uno dei congressi più solenni che la storia ricordi. Proprio in quei giorni, Ronchetti che aveva prestato l’opera sua a Napoleone, la prestava anche alla maggior parte di quelle Altezze sublimi.
Con facile mezzo aveva fatto giungere all’Imperatore Alessandro di Russia un saggio dei suoi lavori meravigliosi e l’Imperatore, poco dopo, lo invitava a presentarsi a Verona, a mezzo del suo Luogotenente generale Guarniechest. Anselmo Ronchetti vi andava ed era ricevuto, lodato e ben voluto e protetto da tutti e alcuni grandi lo vollero perfino a colazione in un Caffè di Verona. Interrogato dall’Imperatore Francesco II se si sentiva davvero contento di essere stato assunto a calzolaio di tanti grandi, rispondeva: “Sì Maestà, giacché il Congresso non avrebbe camminato bene se non vi fosse intervenuto lo “stivale d’Italia”.
Quel detto venne applaudito dall’Imperatore e dagli altri dignitari.
La casetta di via Cerva si trovava in una delle località più tipiche della vecchia Milano.
Vicino vi era il Verziere col suo tumulto, ove il poeta Carlo Porta andava come ad una scoeura de lengua “che i serv e i recatton dan de solit a gratis ai poetta”.
Apriva la sua facciata su una piccola piazza. A tergo scorreva il Naviglio e quivi vi era un piccolo giardino, amore della famiglia Ronchetti e oggetto di cure particolari del babbo. Nei semplici vani di quella casa, come ad un club geniale, convenivano uomini politici, letterati, artisti, magistrati, chi per ordinare calzari, chi per scambiare una parola con quel genialissimo artigiano, chi per chiedere un consiglio prezioso.
Umile officina illuminata da tanta luce di scienza e di arte! Modesta operosità della mano e superiorità dello spirito! E là dentro stavano riuniti, religiosamente curati, come in un sepolcro, le forme di piedi dei monarchi, dei principi e di altri chiarissimi uomini defunti, e mostrati ai visitatori con senso di rispetto e con personale soddisfazione dal Ronchetti. Tra quelle forme vi era pure conservata quella del piede di Napoleone e il modello disegnato della pianta a fondo dello stivale e conservava pure gelosamente due stivali di quel grande che dopo la di lui morte erano vagheggiati da molti, non esclusi uomini alti del governo di Inghilterra e poteva venderli a prezzo carissimo e fare così vari soldi, ma non volle mai.
Ecco come descrisse il sacrario dell’Artista di quella casa uno scrittore nel “Giornale delle scienze, lettere, arti, mode e teatri” edito a Milano (n° 102 del 26/8/1834):
“Vidi una piccola stanza tutta intorno ornata di oggetti di belle arti dove potevansi ammirare opere di un Hayez, di un Migliara, di un Woogd, di un Morghan, di un Longhi (che ci lasciò di Ronchetti il busto che trovasi all’Ambrosiana), di un Marchesi e di molti altri artisti eccellenti; una stanza che sarebbe stata degno sacrario di un letterato enciclopedico, di un ricco dilettante di belle arti, di un avvocato di buon gusto. In quell’officina del più famoso dei calzolai europei erano passati illustri uomini d’ogni grande città: Parigi, Londra, Vienna, Pietroburgo e persino New York e di Canton, da lui ricevuti in abiti logori e succinti in mezzo a pelli, suole, misure di calzari e felicissimi di lasciare in omaggio pezzi dei loro lavori a quell’amico umile calzolaio”.
In quella casa, nella stanzuccia modesta del suo lavoro, ma ricca ad un tempo di tanto splendore, avevano convegno i nostri più accesi primi patrioti.
Giuseppe Rovani, storico, nella sua “Storia dei cent’anni”, parlando di Anselmo Ronchetti lo dice patriota insigne e parlando di quella casa la definisce “Cenacolo di ogni congiura patriottica”.
E attratti dalla giovialità del Ronchetti e dalla sua passione per l’arte e per le lettere in quella casa e in quel giardino di verde e di fiori avevano convegno dolcissimo ancora le figure più fulgide della nostra letteratura, primo fra tutti Giuseppe Parini, peccato che di lui non si siano conservati degli scritti indirizzati ad Anselmo Ronchetti: ed è strano grandemente perché l’amicizia tra il poeta de “Il Giorno” e Anselmo Ronchetti era profonda e viva.
Sono testimonianze le ultime volontà del poeta verso il calzolaio. Il Parini lasciava per testamento in dono ad Anselmo Ronchetti un orologio a pendolo, il suo prediletto bastone col pomo d’avorio e alcuni libri, tra i quali il suo famoso “Dante” (Divina Commedia – edizione principe e preziosissima), sul quale aveva scritto di suo pugno una dedica piena di affettuosità: “Lascio al mio Ronchetti il mio bastone, un pendolo, alcuni libri, tra i quali “Il mio Dante”, per avermi calzato e non storpiato, sebbene la natura mi sia stata avara nel darmi dei piedi malfermi. Addio mio Badé (galantuomo), a ben vederci quando ci troveremo in seno al Padre Eterno”.
Del Dante famoso oggi purtroppo non si sa più nulla. Conservato dal Ronchetti sempre con vero senso di venerazione come una reliquia preziosa, alla sua morte andò disperso, come avvenne purtroppo ad altri oggetti preziosi ed importantissimi.
Anche Vittorio Alfieri gli fu carissimo amico e scrisse per lui dei versi che purtroppo andarono perduti.
Amico intimo gli è stato Vincenzo Monti del quale si conservano due lettere interessantissime. La prima è datata 30/1/1825 ed è colma di geniale affettuosità. Sulla busta vi è questo indirizzo “all’incomparabile Ronchetti – da casa 30/1/1825”
Vale la pena di trascriverla:
“Caro Ronchetti,
mi avete detto che quello dei Vostri figli che trovasi a studio a Pavia ama molto le muse e legge volentieri le cose mie. Piacciavi adunque di fargli aggradire le alcune mie opere che vi trasmetto, pregandovi di accettarle come prova del desiderio che ho di conoscerlo personalmente e chiederne l’amicizia. Unisco a questo piccolo segno della mia gratitudine una stampa del bellissimo quadro del famoso Agricola che spero non sarà indegna del bel gabinetto, né a voi discara perché rappresenta quel divino Dante che Voi amate e la sua Beatrice nell’atto di rimproverargli i trascorsi della vita passata. Per meglio intendere la bellezza leggete il canto XXX del Purgatorio. Era mia intenzione di accompagnarla con quattro versi ma essi mi sono riusciti sì poveri di ogni grazia e sì poco degni del cortese donatore dei “Ronchettini”. Se li voleste essi sono a Vostra disposizione come sono tutto io medesimo.
Vostro aff.mo ed obbl.mo servo e amico
Vincenzo Monti”
Purtroppo anche quei versi non si trovarono più.
La seconda lettera è notevolissima, per uno speciale contributo che porta alla biografia del poeta della Bassvilliana. Essa cioè fu scritta tutta con la mano sinistra giacché la destra era stata colpita da paralisi che poi lo trarrà al sepolcro. E’ datata da Monza 30/8/1827. Sappiamo che il Monti morì a Milano il 13/10/1828.
Nel gruppo di questi che sono tra i più grandi poeti dell’800 che ammiravano l’anima artistica di A. Ronchetti, non poteva mancare Ugo Foscolo, che col Parini, l’Alfieri e il Monti è luce e gloria nella storia delle lettere nell’Italia e nel mondo.
Il poeta dei “Sepolcri” donando al Ronchetti copia del discorso “dell’Origine e dell’Ufficio della Letteratura” scriveva una dedica assai espressiva: “Ad Anselmo Ronchetti, artefice egregio, Ugo Foscolo in pegno di amore candidamente dona”.
Ribadiva poi l’omaggio dedicandogli l’opuscolo intitolato “Esperimento di traduzione dell’Iliade di Omero”.
Carlo Porta, carissimo amico del Manzoni, era uno dei più fedeli amici e frequentatore della casetta di via Cerva. Intimo del Ronchetti e del Gambarelli, suocero del Ronchetti, ravvolto come dice Tommaso Grossi nel suo tabarell culur niscoeula, si assideva al focherello di quel caminetto ospitale o si trascinava con la sua acuta podagra per la stanza dell’amico calzolaio: lo si sentiva raccontare arguti discorsi o novità cittadine di ritorno dal Verzée, dove imparava le più appropriate frasi per esprimere la vita cittadina nelle sue poesie, vernacolo che sfidano i secoli.
Ricordiamo una strofa di un sonetto dedicato dal Porta al nostro Ronchetti che il De Cristoforis, celebre filologo, cita in una lettera che trovasi nei manoscritti raccolti alla Biblioteca Ambrosiana:
“Capissi an mi sur professor Ronchett
che in quant a fa stivai lu l’è quell’omm
che po sta in pari, quand se sia, al Domm
che l’è tra i maravei, quella di sett”
E due terzine di una dedica delle sue poesie:
“Se il mio capo sul busto torreggia,
E s’atteggia – al cangiar degli oggetti,
Sol lo ebbe alla forza del piè;
Ma se il piè regge franco e passeggia
A chi reggia – non v’è, mio Ronchetti,
Che alle scarpe e a stivali di te”
E ancora in un’altra poesia in vernacolo della quale esalta i nomi degli uomini più illustri per scienze, arte e lettere finisce in questo modo:
“Artegian poeu… descurr
Ona motta, on vivee, on mucc, on brovett
Perfett, anzi perfett, plusquam perfett
Basta dì che on Ronchett
L’instrivalla tutt Re e Imperator
E che a Londra e a Paris ghe fan l’onor”
Milano, dice il Rovani nel suo romanzo ciclico dei “cent’anni” nel principio del 1900, forse per essere stata la capitale del Regno Italico, ebbe il privilegio di raccogliere in sé i prototipi dell’intelligenza italiana in tutte le sue sfere e manifestazioni dall’alfa all’omega, dalla testa ai piedi, da Vincenzo Monti a Romagnosi a Sabatelli, ad Appiani, a Carlo Porta ecc., sino al calzolaio Ronchetti prototipo dell’intelligenza operaia, dell’onestà e dell’espansione popolana.
I poeti gli mandavano le loro opere, i pittori e gli scultori le produzioni del pennello e dello scalpello; gli alti dignitari lo onoravano di lettere, così che la raccolta di autografi posseduti dal Ronchetti parrebbe quella di un Voltaire, di un Albergotti, di un Talleyrand.
Intimo suo era lo scultore danese Alberto Thorwaldsen, emulo del Canova, che gli donava il magnifico busto del Byron, considerato il miglior lavoro dello scultore che ora trovasi all’Ambrosiana.
Gli erano amici carissimi il maggior pittore della scuola romantica Hayez, il principe degli incisori Giuseppe Longhi a cui si deve il magnifico ritratto di A. Ronchetti, il Migliara finissimo pittore milanese e l’Inganni.
Il Beccaria lo chiamava “il valoroso calzolaio” e G. Battista Allegri “il calzolaio degli dei”.
L’Imperatore delle Russie, come già scritto, ne era grande ammiratore e con bella dedica gli inviava una tabacchiera d’oro su cui stava dipinto uno smalto magnifico, opera del più eccellente dei pittori russi di allora.
Il Saurau, governatore di Lombardia per l’Imperatore d’Austria, che per primo chiamò “Ronchettini” gli stivali lo ammirava così tanto che gli otteneva un posto gratuito per il figlio Carlo al Collegio Ghislieri di Pavia.
Esistono quattro grossi volumi di lettere di testimonianze, attraverso le quali palpita l’amore dei poeti, degli artisti, dei regnanti, degli eroi, conservato nella Biblioteca Ambrosiana, inviate al Ronchetti.
Anselmo Ronchetti, alias Sant’Anselmo come lo chiamava Carlo Porta, si avviava alla fine.
Recatosi dopo una grave malattia, per consiglio di medici e di amici, per un certo tempo in campagna al paese nativo di Pogliano, sembrava ritemprato un poco nel corpo e nello spirito. Ma è stata cosa di breve durata.
Ormai perduta la giovialità proverbiale si era rassegnato a trovar conforto unicamente nella fede e nelle pratiche religiose in cui nacque e visse sempre saldamente. Moriva nella casa di via Cerva a sessant’anni compianto dalle più sincere ed illustri amicizie il 19 agosto 1833 alle sei pomeridiane e veniva seppellito il 21/8/1833 nel Camposanto di Porta Tosa (Porta Vittoria), che fu soppresso nel 1896, per lasciare spazio allo sviluppo di Milano. I resti di tutte le spoglie esumate dal cimitero furono raccolti nei sotterranei della Chiesa di Santa Maria del Suffragio, sorta dove c’era il cimitero.
Motivo della morte apoplessia fulminante.
Annotazione: morì improvvisamente, funerale e ufficio di terza classe (così nel registro degli atti della parrocchia di S. Stefano di Milano al n° 227)
Milano ha dedicato una via ad Anselmo Ronchetti che via Cerva a corso Monforte, ed è parallela a via Visconti di Modrone, dove un tempo scorreva il naviglio della fossa interna.
La via Ronchetti era un tempo detta Terraggio di san Damiano, in onore dell’antica chiesa edificata a ridosso della pusterla a difesa del ponte che permetteva al corso di San Romano (oggi corso Monforte) di scavalcare il naviglio. Soppressa come luogo di culto nella seconda metà dell’ottocento, venne abbattuta nel 1921, dopo essere stata utilizzata per gli scopi più vari. Qui vicino si trovava il famoso (ora spostato al Parco Sempione) ponte delle Sirenette. Il Terraggio di san Damiano fu intitolato negli anni trenta del secolo scorso al Ronchetti quando la Giunta municipale decise di dedicare la via a questo singolare personaggio (nelle dedica ricordato come “patriota”) che all’incrocio con via Cerva aveva casa e bottega.
A Pogliano gli è stata dedicata una delle vie principali del paese e la scuola secondaria di primo grado consorziata con Vanzago, porta il suo nome.
Stralciamo dal libro “Visconti e arcivescovi di Milano” del Cazzani quanto segue:
Il 29 ottobre 1354, Roberto Visconti dei Visconti di Pogliano, figlio di Antonio e di Dafne Gentile, fu eletto alla cattedra ambrosiana, e il giorno 11 novembre successivo ebbe l’approvazione di Papa Innocenzo VI.
Questo arcivescovo si ritrovò in una situazione politica molto diversa da quella in cui visse il suo predecessore Giovanni Visconti, il quale era stato arcivescovo di Milano e, allo stesso tempo, governatore civile e politico della stessa città. Di lui scrivendo, così si esprime Ettore Verga “L’arcivescovo Giovanni Visconti fu il vero fondatore della signoria viscontea di Milano”. “Grande arcivescovo e fiero governatore – aggiunge il Cazzani – così da stare alla pari, per la potenza del governo civile, all’arcivescovo Ariberto da Intimiano, l’istitutore del Carroccio”.
Alla morte dell’arcivescovo Giovanni gli succedettero come Signori (governatori) di Milano i tre nipoti: Matteo II, Bernabò e Galeazzo II, figli di Stefano, l’ultimo dei cinque fratelli dell’arcivescovo stesso, i quali non furono certo della capacità di governo dello zio arcivescovo.
Francesco Cognasso nel suo volume storico “I visconti” riferisce: “L’11 ottobre 1354, a più di un mese dalla morte dell’arcivescovo Giovanni Visconti, arcivescovo e signore di Milano, celebrati i funerali, il Consiglio Generale di Milano, mancando un testamento politico del defunto arcivescovo, si riunì per conferire ai tre fratelli Matteo II, Bernabò e Galeazzo II Visconti, nipoti dell’arcivescovo, la suprema autorità di “Signori Generali di Milano” (Domini Genarales). E delegò, seduta stante, il giurista Boschino Mantegazza a dare il potere (la “balia”) ai tre nuovi Signori che divennero così giuridicamente Signori e governatori della città”.
L’assegnazione, invece, del patrimonio fra i tre, secondo lo storico Villani, fu fatta per sorteggio e riuscì nel seguente modo:
Per le altre città della Signoria, l’assegnazione del patrimonio venne fatta secondo il reddito. Per il governo della signoria fu fatta un’estrazione fra i tre.
Il punto sul quale vi fu unanime accordo fra il Consiglio Generale e i tre Signori fu quello della elezione del nuovo arcivescovo che doveva essere di casa Visconti.
“A tal fine una sola candidatura era possibile – è sempre il Cognasso che scrive – quella cioè d’un lontano parente, ovvero di Roberto Visconti del ramo dei Visconti di Pogliano, proprietario del feudo di Pogliano”.
Egli era Ordinario (monsignore) della Metropolitana e Arciprete del Capitolo. Era uno dei prelati più stimati dalla cittadinanza milanese. Il Capitolo degli Ordinari della Metropolitana, che pure aveva in grande onore l’Arciprete, d’accordo con i tre Signori, unanimemente designò, il 29 ottobre 1354, Roberto Visconti, alla elezione da parte del Papa ad arcivescovo di Milano.
In quel tempo la corte pontificia risiedeva ad Avignone (Provenza francese). Il 9 novembre successivo, Innocenzo VI da Avignone rispondeva al Capitolo della Metropolitana e ai tre Signori di aver, con particolare piacere, provvisto alla cattedra arcivescovile di Milano nella persona di Roberto Visconti, in considerazione dei suoi preclari meriti, e per riguardo speciale verso i tre Signori governatori di Milano. Univa insieme una lettera consolatoria per la morte dello zio Giovanni arcivescovo, aggiungeva la promessa della sua assistenza e del suo aiuto, con l’invito ai tre Signori, alla concordia e con l’esortazione che volessero accordare all’arcivescovo nuovo, al suo clero e alla chiesa milanese la loro protezione.
“Con il nuovo arcivescovo di casa loro, i tre Signori di Milano – continua il Cognasso – non avevano più a temere che si chiedesse loro conto del patrimonio usurpato dai Visconti alla chiesa ambrosiana negli anni precedenti”. Infatti, a quel tempo, la chiesa milanese conservava tutti i suoi beni ma solo apparentemente, poiché i Visconti, al tempo di Matteo I, si erano nominati conservatori dei beni stessi. All’assunzione quindi di Roberto Visconti ad arcivescovo, il vero patrimonio della chiesa milanese si riduceva a ben poca cosa. Perfino il palazzo arcivescovile, ricostruito dall’arcivescovo Giovanni Visconti, lo zio defunto, era nelle loro mani. Per queste usurpazioni di beni ecclesiastici il Papa Clemente V nell’agosto 1314 aveva lanciata la scomunica contro Matteo I e i suoi figli. Tra i capi di accusa campeggiavano quelli di avere invaso il castello e possessioni di Cassano, le torri e le possessioni di Abbiategrasso, il castello di Angera, ecc. ecc.
Il decreto accenna anche al fatto che un famigliare di Matteo I, un certo Beltramo Prandebuono, con alcuni satelliti, avevano fatto irruzione nel monastero di santa Radegonda e ne avevano asportato i privilegi, le scritture e i diritti della chiesa milanese ivi depositati e, peggio, avevano sottratto e distrutto diplomi e altre carte regie, imperiali e pontificie, rilasciati, nel corso dei secoli, all’arcivescovo di Milano, facenti fede dei diritti patrimoniali della sede arcivescovile milanese. Questo fu fatto allo scopo di privare l’arcivescovo di documenti con i quali avrebbe potuto comprovare la legittimità di un anteriore possesso immemoriale. Con la distruzione di quelle carte c’è da lamentare anche la perdita di documenti di massima importanza storica.
La scomunica, all’assunzione di Roberto ad arcivescovo, perdurava ancora, nonostante le ripetute querele del pontefice Clemente V e del di lui successore Giovanni XXII. Per questo il Papa Innocenzo VI raccomandava concordia e pace con la Chiesa e con il popolo.
Roberto Visconti, divenuto arcivescovo, si trovò perciò dinanzi ad enormi problemi da risolvere per il bene della Chiesa milanese sia dal lato materiale, sia dal lato spirituale. Egli con tutto l’animo si adoperò per dare la necessaria schiarita a quelle oscure atmosfere, com’era il desiderio di tutti i milanesi, anche se purtroppo, dal lato materiale delle rivendicazioni del patrimonio ecclesiastico, quello sforzo pastorale avrebbe dato scarsi risultati.
Il Papa Innocenzo VI, da Avignone, aveva raccomandato, con calda lettera, ai tre Visconti Matteo II, Galeazzo II e Bernabò, Signori di Milano, la pace. Ma i tre Signori di Milano non andavano d’accordo neanche tra di loro. Anzi, Matteo II che era un degenerato, fu tolto di mezzo, molto presto, con il veleno propinatogli dagli stessi fratelli (anno 1355). Al proposito, ci fa sapere il Villani, scrittore storico:
“Era andato a caccia a Monza il 29 settembre 1355 e il giorno dopo, sentendosi male al ventre, si fece riportare a Milano e quivi moriva nella notte di quel giorno, senza che alcuno lo curasse: morì come un cane, senza confessione e di morte violenta”.
I due fratelli Galeazzo II e Bernabò si divisero tosto il suo dominio.
Fattacci del genere rendevano sempre più difficile anche il lavoro pastorale dell’arcivescovo Roberto. Un’occasione molto propizia per portare pace nel dominio visconteo dei due fratelli Signori di Milano, e per la rivendicazione dei beni e dei diritti della Chiesa ambrosiana, sembrò presentarsi all’arcivescovo con la venuta a Milano dell’imperatore del Sacro Romano Impero Carlo IV di Lussemburgo, con il quale, nell’occasione, l’arcivescovo ebbe dei contatti personali.
Anzi, il 5 gennaio 1355, nella basilica di sant’Ambrogio, non in Duomo, come fu detto, tra l’entusiasmo di tutto il popolo, presenti tutte le autorità della Signoria milanese, lo incoronò Re d’Italia con la corona ferrea, portatavi da Monza. Facciamo notare che l’arcivescovo sperava proprio nell’aiuto dell’imperatore.
Nell’occasione dell’incoronazione, per invito dello stesso arcivescovo, tenne il discorso di circostanza il Petrarca, il grande poeta, il quale si trovava a Milano da due anni, invitatovi nel 1353 dall’arcivescovo Giovanni Visconti, gran mecenate delle lettere, e vi rimase fino al 1361 protetto e onorato dai tre Visconti e, particolarmente, dall’arcivescovo Roberto.
Nonostante le ansiose attese dell’arcivescovo, l’imperatore, constatate le intricate e tristi condizioni politiche di Milano, rendeva noto al presule che aveva deciso di lasciare la città senza neppure iniziare trattative per la pace da tutti i retti cittadini desiderata; molto presto, senza apparato per il commiato, lasciava Milano dirigendosi verso Roma dove pure era atteso per l’incoronazione ad imperatore del Sacro Romano Impero.
Carlo IV lasciò presto anche Roma e, ripassando per la Lombardia (vedi Ettore Verga “Storia di Milano”) come un fuggiasco inseguito, si affrettò a risalire la Val Camonica per raggiungere, in tutta fretta, il Brennero.
L’arcivescovo Roberto Visconti, nonostante tutta la sua buona volontà e tutti i suoi contatti personali con l’imperatore, non riuscì a concludere proprio nulla circa la pace cittadina e le rivendicazioni delle proprietà della Chiesa milanese. Dovette perciò, con suo massimo disappunto, limitarsi ad una rinnovata solenne affermazione degli inequivocabili diritti della Chiesa milanese, davanti ai due Signori governatori Galeazzo II e Bernabò.
L’arcivescovo, durante il settennato della sua reggenza pastorale (1354-1361), fra tutto il resto dell’immenso lavoro a salvezza delle anime, diede grande impulso alla pietà del popolo curando moltissimo il culto eucaristico, sulle orme del suo predecessore e parente Giovanni Visconti, del quale, già abbiamo detto, era stato fedelissimo Arciprete del Capitolo Metropolitano.
L’arcivescovo Giovanni Visconti aveva introdotto in Milano la festa del Corpus Domini, accolta da tutto il popolo cittadino e forense con il massimo entusiasmo di fede. Ebbero così inizio, in Milano e diocesi, le famose confraternite del “Corpus Domini” che, con l’arcivescovo Roberto Visconti, ricevettero un grande impulso nella loro diffusione.
Anche a Pogliano era molto sentita fin da allora la festa del “Corpus Domini” e sorse anche da noi la confraternita alla quale erano iscritti tuti gli uomini e che durò fiorentissima fino al tempo di san Carlo.
Il nostro arcivescovo fece ancora di più: durante il suo governo pastorale (1354-1361), fondò anche due cappellanie con reddito delle SS. Messe nella chiesa maggiore di Milano (il Duomo di allora) sotto il titolo del “Corpus Domini” e di “S. Caterina”. Queste cappellanie passarono poi nel Duomo nuovo, l’attuale, all’altare di S. Agnese.
Roberto Visconti dotò le suddette cappellanie con i beni provenienti dal suo feudo di Pogliano: i redditi di questo lascito dell’arcivescovo Roberto Visconti si conservavano ancora al tempo del cardinal Federico Borromeo, e sempre devoluti al medesimo scopo, amministrati però, allora, dai marchesi Grassi di Pogliano, che erano succeduti, nella proprietà del feudo di Pogliano, al conte Paolo Camillo Marliani, immediato successore dei Visconti (1538) nella proprietà del feudo.
Il Cazzani ci informa che il nostro arcivescovo Roberto Visconti si rese defunto probabilmente a Milano, l’8 agosto 1361, ma lo stesso autore subito aggiunge “Però nel Manipolus Florum di Galvano Fiamma, religioso domenicano milanese, cronista insigne, lodato anche da Lodovico Muratori (ad opera di un suo fedelissimo e diligente continuatore) si legge che l’arcivescovo Roberto Visconti si rese defunto in “Oppido Legnani” vale a dire nel “territorio di Legnano” quindi a Pogliano, capoluogo del suo feudo che gli stava tanto a cuore”.
La salma venne poi trasferita a Milano e sepolta nella Metropolitana (cioè nel duomo antico, il Duomo di quel tempo) ch’era ben degno suo monumento sepolcrale.
Parroco di Pogliano dal 1822 al 1874, nato a Veccana (VA). Dopo aver frequentato gli studi di retorica e di teologia nel seminario di Milano, veniva inviato a Pogliano come parroco dal card. Gaisruck e vi rimaneva per 54 anni sempre stimato e ben voluto dal suo popolo.
Era un uomo d’acciaio, zelantissimo pastore e fermissimo patriota, tanto da essere chiamato “il garibaldino”. Amico sincero dei patrioti, li stimolava al bene della libertà della patria e si impegnava a difenderli e a salvarli, intervenendo anche personalmente presso le autorità austriache tutt’altro che tenere.
Questo fu attestato nel secolo successivo da alcuni testimoni diretti che ebbero la fortuna di vivere nella loro prima giovinezza , accanto a quel parroco invitto, così come sappiamo da racconti tramandati ai figli da suoi collaboratori diretti nell’amministrazione della parrocchia, che questa sua opera di amor di patria, lo portò addirittura a salvare delle persone minacciate dalla deportazione e dalla forca.
Don Francesco De Bonis morì di vecchiaia a Pogliano il 19 febbraio 1874, all’età di 81 anni.
Nato ad Olginate (LC) il 6 giugno 1866, fu parroco a Pogliano per ventidue anni, succedendo nel 1900 al defunto don Francesco Fumagalli. Il suo ingresso a Pogliano avvenne il 27 agosto.
In precedenza, fu coadiutore a Galbiate.
Fu un attivissimo Pastore fra i poglianesi che amò con tanto affetto e si adoperò con zeload elevarli nella vita della fede: la prova più eloquente furono le moltissime vocazioni di sacerdoti e suore durante il suo apostolato.
A lui si deve la realizzazione di molte opere, tra le quali:
Durante la Prima Guerra Mondiale (1915-1918) fu di immenso conforto a tutte le famiglie afflitte per la lontananza forzata dei padri e dei figli chiamati alle armi, aiutando con carità inesauribile chi era provato dalla miseria e dalla fame a causa della guerra. Teneva la corrispondenza tra le famiglie e i militari, le assisteva, le rincuorava, le benediceva e piangeva con loro all’annuncio della morte dei propri cari.
Particolarmente grande fu il suo dolore all’annuncio della scomparsa di Carlo Canciani, primo Caduto poglianese, che colpì tutto il paese. La sua presenza fu di grande sollievo per i genitori inconsolabili.
Per al sua geniale intelligenza e la sua intensa attività godette sempre tutto il favore e la fiducia del cardinal Ferrari.
Don Corti morì a Pogliano il 29 gennaio 1923. Il popolo, in sua memoria e su iniziativa del sindaco cav. Giuseppe Moroni, volle dedicargli una via del paese.
Don Giulio Magni, nacque ad Arcore il 3 aprile 1900 e fu ordinato sacerdote il 19 settembre 1925; per undici anni coadiutore presso la prevostura di Rosate, fu nominato Parroco di Pogliano il 26 giugno 1936, facendo il suo ingresso in parrocchia il 2 agosto successivo, dopo la conferma dalla procura reale ed imperiale del re e imperatore Vittorio Emanuele III.
Succedeva a don Pietro Molteni che, a seguito di problemi di salute che lo portarono ad una paralisi progressiva, il 29 aprile dello stesso anno rinunciava al beneficio di Pogliano ritirandosi presso l’istituto dei Concezionisti di Cantù. La parrocchia, rimasta vacante per tre mesi circa, fu retta dal coadiutore don Battista Lamperti e da don Luigi Piazza di Nerviano che era il vicario spirituale ufficiale.
Il 2 agosto, festa del perdono di Assisi, don Giulio fu prelevato da Rosate e, con un corteo di automobili giunse a Pogliano dove celebrò la Santa Messa delle ore 10:30 e la compieta delle 16:30 con processione per le vie del paese. Alla sera ci furono i fuochi d’artificio. Lunedì 3 agosto si tenne l’ufficio solenne per tutti i defunti concelebrato da ventisette sacerdoti e il 6 si chiusero le feste di accoglienza con una cena offerta dal novello parroco a tutti i cantori. Con questo gesto simbolico, don Giulio volle da subito evidenziare la sua vicinanza alla cantoria che avrebbe continuato ad esistere fino ai giorni nostri.
Il novello parroco di Pogliano ebbe modo di conoscere quasi subito, personalmente, don Francesco Paleari: l’occasione si presentò all’inizio di settembre, quando si recò al Cottolengo di Torino insieme a don Battista a porgergli gli auguri di tutta la comunità poglianese per il cinquantesimo di ordinazione sacerdotale e per accordarsi sui festeggiamenti da fargli a Pogliano, che sarebbero avvenuti durante la festa del Rosario di domenica 4 ottobre 1936. Don Giulio capì subito che don Franceschino aveva qualcosa in più e si fece in quattro per tutta la sua vita affinché venisse innalzato alla gloria degli altari.
Non impiegò molto tempo anche a capire come la chiesa parrocchiale fosse troppo piccola per contenere i fedeli poglianesi e si adoperò da subito per portare a compimento la costruzione di un nuovo edificio di culto che ebbe la gioia di inaugurare pochi mesi prima della sua morte. La chiesa nuova non fu l’unica grande opera che portò a termine: infatti, in località Bettolino, gli aumentati bisogni spirituali della popolazione lo portarono a costruire la chiesa di Santa Rita, che sarebbe diventata parrocchia a sé stante dal 1971, e un nuovo asilo, oggi Oratorio e casa parrocchiale.
Durante la seconda guerra mondiale, don Giulio fu un punto di riferimento dei movimenti partigiani della nostra zona, tanto che nel 1944 il rag. Anacleto Tenconi, futuro sindaco di Legnano suonò il campanello della casa parrocchiale per proporre al parroco la costituzione del primo nucleo clandestino della Democrazia Cristiana che fu composto da sedici uomini e da qualche giovane. Da tale gruppo di formò anche la squadra armata dei partigiani democristiani di Pogliano formata da dodici elementi pronti a tutto. Spesso, in casa del Parroco, pernottarono i capi partigiani di Legnano per formare questi giovani che si resero protagonisti di parecchie opere di sabotaggio sulla linea ferroviaria del Sempione e altrove. Nel gennaio del 1945 don Giulio si attivò per proteggere Renzo Palmieri, giovanissimo partigiano di Legnano, ormai compromesso davanti ai fascisti che ne avevano scoperto l’attività clandestina grazie alle rivelazioni di un collega di lavoro. Il Palmieri fu portato alla Cascina Impero dei signori Goegan, sulla strada che porta ad Arluno dove il parroco si recava spesso a fargli visita, nonostante il mezzo metro di neve caduto in quell’inverno. Nello stesso tempo, in una cantina dell’Oratorio maschile, grazie ad un macchinario ivi collocato di proprietà della tipografia dei fratelli Marinoni Emanuele, Carlo e Gino sfollati a Pogliano a seguito dei bombardamenti su Milano, si stampava clandestinamente un foglio periodico intitolato “La Martinella” per meglio collegare tra loro i vari gruppi partigiani della DC della nostra zona che avrebbero preparato al movimento insurrezionale del 25 aprile che portò all’insediamento del Sindaco Giuseppe Moroni e di una giunta democristiana. L’ordine di occupare il municipio arrivò proprio in casa parrocchiale.
Nel dopoguerra e negli anni successivi don Giulio continuò a lottare con fervore anche con sermoni e prediche molto accese dal pulpito, soprattutto in occasione delle elezioni politiche o amministrative, affinché Pogliano mantenesse la propria tradizione cattolica anche nella guida dell’amministrazione comunale, tanto da mettere in guardia i fedeli affermando che “dall’altra sponda (si intende la parte politica avversa alla DC) non dormivano i nemici di Cristo, non più con la camicia nera ma con camicia rossa di ardore infernale”. Sappiamo tutti come ai tempi era molto accesa la lotta tra democristiani da una parte e socialisti e comunisti dall’altra.
Il 15 settembre 1946 una tragedia immane colpì Pogliano e segnò don Giulio nell’animo e nel fisico: a Lovere, durante un pellegrinaggio, persero la vita sei ragazzi dell’Oratorio di età compresa tra i 9 e i 18 anni. Don Giulio dovette subire un processo penale per questo fatto dal quale uscì assolto ma gli anni che lo videro impegnato nel processo furono per lui pesanti e segnanti, tanto da non voler quasi festeggiare il suo venticinquesimo di sacerdozio che don Achille (nuovo coadiutore a seguito della morte di don Battista Lamperti) aveva magistralmente organizzato nel 1950.
Don Giulio amava Pogliano e la sua gente, aveva a cuore ognuno dei suoi parrocchiani. Riuscì ad agevolare l’entrata nel mondo del lavoro di tanti giovani, attraverso una rete di conoscenze e di stima che aveva con molti datori di lavoro dell’epoca, tanto che anche i sacerdoti dei paesi limitrofi si rivolgevano a lui per risolvere i problemi dei propri parrocchiani.
Aiutava tutti, nessuno doveva soffrire: era sempre pronto ad assistere i poveri, gli ammalati e i bisognosi e voleva che il suo popolo sapesse fare altrettanto. Con la sua bicicletta girava Pogliano per portare conforto e speranza a chi era in difficoltà. Le sue sofferenze fisiche e morali, come l’infarto che lo aveva colpito l’anno precedente alla morte dal quale non si riprese mai del tutto, invece, le teneva per sé. Sentiva sempre il bisogno di stare tra la gente e il popolo.