Cenni Storici

Cenni Storici sul Comune di Pogliano Milanese

“Pogliano, della provincia di Milano, ha il territorio frastagliato da amene ondulazioni ed appoggi di poco conto, viene bagnato dall’Olona…”
scrive l’Amati nel Dizionario Corografico.

L’ORIGINE DI POGLIANO MILANESE

CHE OGGI CONTA PIÙ DI OTTOMILA ABITANTI, SI PERDE NEI SECOLI

“L’agro di Pogliano – dice l’Amati – con ogni probabilità fu abitato fin dal tempo dei Romani, giacché vi si trovano diverse iscrizioni riferentisi a quell’epoca”. Ed il Giulini, nella sua “Memorie di Milano” dice: “Pogliano è luogo antichissimo nel distretto di Saronno”. Dell’antichità del paese fanno fede i ruderi sotterranei di antiche case, ora scomparse”.

L’inizio di questi nostri paesi situati sull’Olona, con ogni probabilità, possiamo farlo risalire allorquando il Senato romano, al termine delle guerre puniche (180 a.C.) decise di inviare nell’alta Italia (la Gallia Cisalpina) i reduci di quelle guerre a lavorare i campi di certa parte della pianura attraversati da fiumi, dati loro in premio di vittoria, e nel contempo, come contropartita, dovevano impegnarsi a rintuzzare con le armi, le scorrerie degli Elvezi (Svizzeri), che scendevano dalle Alpi nel territorio della Cisalpina a devastare i campi in razzie barbariche. Questi reduci dovevano perciò sottostare ad una specie di regime militare, onde essere pronti, per ogni evenienza, all’ordine di un capo militare. Gallia Cisalpina o Gallia Citeriore è il nome conferito dai Romani in età repubblicana ai territori dell’Italia settentrionale compresi tra il fiume Adige a Levante, le Alpi a Ponente e a Settentrione e il Rubicone a Meridione. Il Po divideva la regione in Gallia Transpadana e Gallia Cispadana. Si trattava dei territori che corrispondevano all’attuale pianura padana, attorno al grande fiume Po, compresi i territori della Liguria a sud-ovest, fino all’attuale Veneto nella sua parte nord-orientale. La regione divenne provincia romana includendo però tutti i territori a ovest del fiume Adige, fino alle Alpi piemontesi.

ORIGINE DEI NOSTRI PAESI

Dai gruppi di reduci dislocati sull’Olona, sarebbero quindi sorti: il borgo di Vanzago, per le schiere del capo chiamato Vanzio (Vantii agmina); il borgo di Pogliano per le schiere al comando di Publio (Publii agmina); il borgo di Nerviano per le schiere al comando di Nerva (Nervae agmina) e il borgo di Legnano (che poi diventerà la odierna città) per le schiere al comando di Licinio (Licinii agmina).

A Legnano doveva esserci anche la sede del quartier generale per la direzione disciplinare dei reduci di tutta la nostra zona.

A Cornaredo, doveva essere stanziato un gruppo di Rezii (gente della Rezia), soci dei Romani in guerra e con essi vittoriosi: di qui il nome (probabilmente) di Cornaredo dato al paese (Cornua Retium, schiere dei Rezii).

Così, a Barbaiana, doveva esserci il posto di concentramento dei barbari Elvezi catturati nelle loro scorrerie nel nostro territorio (di qui Barbariana, ora Barbaiana).

Famiglia degli ALBUZIO

“Nel paese di Pogliano – riferisce lo storico arciprete oblato Francesco Bombognini nel suo “Antiquario della diocesi di Milano”, pubblicato nel 1828 – nel 50 a.C. aveva l’abitazione la celebre famiglia degli Albuzio (Albuzzi) (così si rileva anche da alcune iscrizioni già scoperte), dalla quale uscirono due grandi personalità del mondo filosofico e giuridico”. Nel 50 a.C. brillò per scienza filosofa Tito Albuzio (del ramo filosofico di Epicuro). Cornelio Fabro, nel suo volume “Storia della filosofia” lo annovera tra i più ardenti assertori di quella filosofia.

Aristide Calderini, grande egittologo e storico, professore di storia antica (egittologia) all’Università di Milano nel suo libro “Lombardia romana”, scrive che il filosofo Tito Albuzio era anche un oratore potente che sapeva magistralmente infiorare i suoi discorsi con brillanti frasi greche.

Il secondo insigne personaggio degli Albuzio è Caio Silo Albuzio o, meglio, Caio Albuzio Silo, nipote del primo. “Retore e avvocato di affascinante oratoria”, scrive Calderini. E citando Svetonio, lo storico famoso del tempo del primo impero di Roma, dice che difendendo Caio Albuzio Silo una delle molte cause a lui affidate nel foro di Milano, davanti al proconsole Lucio Pisone, diede sulle furie perché il littore (ufficiale al servizio del magistrato romano) cercava di chetare i troppi applausi che gli si tributavano, e tanto si irritò che deplorando la condizione del luogo, quasi nuovamente ridotto a provincia, giunse ad invocare Marco Bruto di cui aveva presente la statua come autore e iudice delle leggi e della libertà. E ciò nonostante fosse ammiratore di Giulio Cesare, il grande Generale dittatore amico, padre e protettore delle genti della Cisalpina. Solo qualche anno prima, infatti, proprio e quasi unicamente per il prestigio che godeva Giulio Cesare presso il senato, i Cisalpini erano stati riconosciuti dal senato romano “cittadini romani” contro il parere di molti senatori, compreso Cicerone.

 Arrivo del Cristianesimo

Da noi il cristianesimo arrivò molto presto. Tutti i nostri paesi attraversati dai fiumi furono, per la viabilità ed il continuo contatto con la gente di città, facile meta degli apostoli di Cristo.

Sant’Ambrogio asserisce in una sua opera che, al suo tempo, in tutta la sua vastissima giurisdizione spirituale, il paganesimo era completamente debellato. Nei nostri paesi, è da credersi, che già quando nel 250 d.C., S. Mona arcivescovo divideva in zone parrocchiali la diocesi per facilitare il lavoro di apostolato, la vita cristiana scorreva tranquilla e sicura.

C’era al tempo di S. Ambrogio il pericolo di una involuzione di cose per l’Arianesimo. S. Ambrogio intuì il grave pericolo, combatté senza tregua questa eresia e ne fu il martello demolitore.

Ma dopo Teodosio il grande e S. Ambrogio che ne era il braccio destro, governando l’imperatore di Milano, l’impero andò sempre più decadendo.

I Romani avevano perduta l’antica austerità, rifuggivano dall’esercizio delle pubbliche cariche e dalle armi. Da secoli durava il cozzo tra le due religioni e non tutti gli imperatori, purtroppo, ebbero al riguardo le vedute sapienti di Costantino Magno.

Era venuta meno l’autorità centrale dello stato, quindi facili erano le rivolte all’interno e all’esterno, sempre più forte si faceva la pressione dei barbari. In certe province si delineavano anche tendenze separatiste. Di più: l’amministrazione era diventata sempre più venale, la campagna era pressoché abbandonata e, per conseguenza, si estendeva sempre il latifondo venendo così meno la ricchezza agricola, grande risorsa di vita. L’impero, per rinforzare le legioni, doveva sempre più largamente ricorrere ai barbari che finiranno per farsi padroni.

 La gente della pianura padana verso la cittadinanza romana

Per la storia di Milano di grande importanza furono le vicende della famosa guerra sociale (92-89 a.C.) per l’abolizione del latifondo e l’estensione della cittadinanza romana, a cui gli abitanti di quelle aree aspiravano, che li avrebbe resi liberi ed equiparati ai romani stessi. Intanto Milano, centro della Valpadana si elevava sempre più ornandosi di templi, di terme, di fori e di arene.

Di questi monumenti vi è ancora qualche segno.

Alla concessione della piena cittadinanza romana a quei lontanissimi nostri padri, fino allora lasciati nelle

depresse condizioni di gente di tribù, il Senato Romano giunse a gradi.

  • CONCESSIONE DEL 90 a.C. di Caio Gracco: il Senato Romano in quell’anno approvava una legge, in conseguenza della guerra sociale, per la quale era concessa la cittadinanza a tutte le città alleate di Roma che non si erano ribellate, e così divennero municipi romani le colonie latine della Valle del Po.
  • LA LEGGE DEL CONSOLE GNEO POMPEO STRABONE: successivamente, verso la fine dell’89 a.C., veniva approvata un’altra proposta del Console Gneo Pompeo Strabone, padre di Pompeo Magno, il grandissimo generale, che concesse ai Veneti, ai Galli e ai Liguri, che erano ormai pervenuti ad un certo grado di romanizzazione, la condizione giuridica della quale avevano goduto già le “colonie latine”, cioè il cosiddetto “Ius Latii”. Ciò significava che i capoluoghi della stirpe dei Veneti, dei Galli e dei Liguri divenivano giuridicamente “coloniae latinae” cioè “Urbes” nel senso greco-romano della parola e che il territorio della tribù diveniva il territorio della città stessa. Milano (Mediolanum) divenne allora giuridicamente colonia latina, e l’Agro Insubre (pressappoco la Lombardia d’oggi) ne divenne il suo territorio. Gneo Pompeo Strabone, per questa legge di favore, venne considerato il fondatore dell’Urbanesimo della Valle del Po e, per merito e riconoscenza del popolo, venne chiamata dal suo nome “Laus Pompeia” la città di Lodi e “Alba Pompeia” la città di Alba.

Alessandro Colombo, storico illustre milanese, nel suo volume “Milano pre-romana” tenta di fissare i limiti dell’Agro Milanese (Colonia – Municipio – Urbe) e ritiene che fossero fissati così: a Nord, ai termini dell’Italia, nel tratto compreso fra i laghi Maggiore e di Lugano, con la maggior parte della Brianza; ad Ovest dal Ticino e a Sud dalle due strade da Milano a Lodi e da Milano a Pavia. Sarebbero quindi stati contermini i Municipi di Como, Bergamo, Lodi, Pavia, Novara.

  • LE LEGGI SILLANE: si attribuisce a Cornello Silla (il famoso rivale di Caio Mario) in uno degli anni fra l’82 e il 75 a.C., nei quali fu dittatore, la costituzione della Valle del Po in un’unica provincia chiamata “Gallia Citeriore”. Sono appunto di questo periodo le “leggi Sillane” che diedero un nuovo ordinamento allo stato romano. Ma i Traspadani aspiravano ad avere la piena cittadinanza romana. Milano allora, come “colonia latina – urbe” aveva un senato proprio con i relativi magistrati, i “duoviri”. Ma le istanze dei traspadani per ottenere la piena cittadinanza romana non cessarono. Per questa loro causa trovarono un protettore e sostenitore validissimo in Giulio Cesare.
  • GIULIO CESARE (100 – 44 a.C.): il più grande generale dei Romani, tornando alla fine dell’88 a.C. dalla Spagna, dov’era stato questore, visitò con cura particolare le colonie latine della Cisalpina, e sentì così convincente la cittadinanza romana da indurre quasi ad una rivolta aperta contro il Senato Romano per costringerlo alla concessione. Così narra lo storico Svetonio: “Giulio Cesare, sempre nell’intento di raggiungere lo scopo, aveva persino accusato e denunciato dinnanzi al Tribunale del Senato Romano Caio Pisone, che fu console nel 67 a.C., di aver trattato con supplizio ingiusto alcuni Traspadani durante la sua reggenza “Propter cuiusdam Traspadani supplicium iniustum”. Cicerone, il grande giurista filosofo, in questa questione difese Caio Pisone. Ma a Roma pesava sulla sorte dei Traspadani il gioco degli interessi politici, proprio come chiaramente asseriva Caio Curione, console nel 76 a.C: “è giusta la causa dei Traspadani, giuste sono le loro richieste, ma bisogna tener d’occhio l’utilità politica”.
  • GIULIO CESARE GOVERNATORE DELLA CISPADANA. È stato perciò un giubilo generale per tutti i Traspadani l’apprendere nel 59 a.C. che a Giulio Cesare, triumviro, era stato affidato dal Senato di Roma, il governo della Cisalpina con tre legioni di soldati, per cinque anni, e della Transalpina (Gallia Meridionale) con un’altra legione. Giulio Cesare raggiunse le sue province nel 58 a.C. chiamatovi d’urgenza dalle minacce degli Elvezi (Svizzeri) e da allora fino al 49 a.C., cioè fino al famoso passaggio del Rubicone e all’inizio della guerra civile, egli fu, corpo e anima, governatore delle terre affidate a lui e specialmente della Cisalpina, dalla quale attingeva i soldati più fedeli per riempire i vuoti delle sue legioni e tentare le sue audaci imprese: la conquista della Gallia (58 – 50 a.C.) giungendo fino a Parigi dove obbligava alla resa totale Vercingetorige capitano generale dei Galli, e la guerra contro Ariovisto, principe degli Svevi, sul quale riportava la famosa vittoria del fiume Reno. Giulio Cesare si era fatto tanto amico dei Cisalpini che, nei mesi invernali specialmente, cercava nella loro Milano il meritato riposo, negli attimi di pace, dopo le sue dure fatiche di guerra. E le popolazioni di queste nostre regioni non gli furono avare di onori e lodi. Infatti, narra Aulo Irzio, luogotenente di Cesare nella Gallia, nel libro VIII dei suoi Commentari della Guerra Gallica, che nel 50 a.C., nono anno della guerra Gallica, Cesare, reduce dalla conquista ormai definitivamente vittoriosa, fu accolto da tutti i municipi delle Colonie della nostra Cisalpina con incredibile onore ed amore. “Nulla si tralasciava – scrive Irzio – di quanto potesse essere pensato per adornare porte di città, strade e luoghi, per dove sarebbe passato Cesare. Tutta la folla gli veniva incontro con i figli, vittime erano immolate agli dei per ogni luogo, e piazze e templi erano occupati, e mense imbandite con una festa quale solo potevasi attendere da un trionfo lungamente aspettato, tanta era la magnificenza dell’apparato presso i più ricchi e l’entusiasmo presso i più umili”. Tra le città della Cisalpina che accolsero Giulio Cesare proconsole ci fu Milano che lo festeggiò con la massima espansione. Con il favore di Cesare, negli anni del suo proconsolato, Milano ebbe uno sviluppo notevole. Lo dimostra anche il fatto che in quegli anni, fra il 55 e il 50 a.C., il grande poeta mantovano Virgilio, il massimo poeta epico latino, che aveva compiuti i primi studi a Cremona, che era, a quel tempo, una delle più importanti città della Cisalpina, assunta la toga virile, passò a Milano per gli studi retorici più gravi, e questi studi erano professati dai più dotti uomini della Cisalpina. Tra questi dotti studiosi, con tutta probabilità, vi era e vi eccelleva il filosofo perfetto (così lo definisce Cicerone) “perfectus philosophus epicureu” Tito Albuzio della famiglia degli Albuzio Romani di stanza a Pogliano… Questo grande filosofo era stato anche pretore in Sardegna nel 90 – 87 a.C.

LE INVASIONI BARBARICHE

L’antagonismo tra l’Impero Romano d’Occidente e quello d’Oriente avrà il suo epilogo nel disfacimento    dell’Impero e, come conseguenza, la via aperta alla discesa dei  barbari.

I primi ad arrivare nei nostri territori furono gli Unni che, distrutta Aquileia, saccheggiate Padova e altre città, si precipitano a Milano e arrogatisi a capi con Attila nel palazzo imperiale, fecero incendiare parte della città compreso il tempio maggiore di S. Tecla (Duomo), perché l’unica vera resistenza venne dall’arcivescovo S. Eusebio: e guai non ci fosse stato S. Leone Magno, con l’aiuto di Dio, a fermarlo! E a Roma sedeva il senato impotente.

Eusebio provvide poi a far ricostruire il Duomo e la stessa città incendiata, non rispondendo più la direzione civile.

Vennero pure gli Eruli e gli Ostrogoti tutti popoli predoni. Gli Eruli erano la componente principale dell’insieme di tribù germaniche che, entrate al servizio dell’Impero Romano in qualità di mercenari, ne decisero le sorti in territorio italico: nel 476, infatti, il loro re Odoacre depose l’ultimo imperatore romano d’Occidente, Romolo Augusto, e assunse il controllo dell’Italia. Il regno degli Eruli fu però di breve durata, scalzato nel 493 dagli Ostrogoti di Teodorico.

Nel 508, secondo la narrazione che ne fa Procopio di Cesarea, i Longobardi si affrancarono dalla sudditanza cui erano sottoposti sconfiggendo in un’epica battaglia gli Eruli guidati dal loro re Rodolfo, figlio adottivo di Teodorico.

Dopo questa sconfitta gli Eruli scomparvero quasi completamente; infatti, i superstiti della battaglia subirono una diaspora, venendo in gran parte assorbiti dagli stessi Longobardi.

Veramente, con Teodorico, re degli Ostrogoti e sgominatore degli Eruli, si raggiunse l’attuazione di uno stato sempre barbarico ma con seria volontà di assimilare la tradizione del governo romano. Basta pensare ai consiglieri che componevano il governo: Severino BoezioSimmaco e Cassiodoro.

LONGOBARDI

Dopo i Goti ecco i Longobardi che rimarranno in Italia per più di duecento anni.

I barbari erano popoli completamente “nomadi” che si muovevano verso il mezzogiorno dell’Europa provenienti dal nord (Germania), trascinando con sé tutte le loro baracche e masserizie. Vivevano in tribù autonome, non avevano leggi ma solo rozze abitudini, non possedevano codici che li dirigessero. La giustizia presso di loro era fatta privatamente, ammettevano la vendetta (faida) ed il risarcimento delle offese.

Per religione erano naturisti (pagani primitivi) o ariani (eretici). In quanto nomadi, non avevano proprietà private e presso di loro l’agricoltura era ancora rudimentale. Vivevano di caccia e di pastorizia e non avevano nessuna conoscenza morale. Apprezzavano la forza fisica, che era la misura dell’uomo, e la capacità militare. Si dice che non avessero cultura alcuna ma solo ignoranza e superstizione.

Fortuna per loro che, scendendo in Italia, si incontrarono con l’organizzazione romana – cristiana che servì grandemente a far determinare la loro romanizzazione.

Ma la miseria creatasi in Italia con la loro venuta fu immensa: fame e pestilenze spopolarono intere regioni e i pochi rimasti dovevano trovare rifugio presso i conventi o presso le chiese dai pochi sacerdoti sopravvissuti. È opinione infatti di storici illustri che i Longobardi ridussero gli italiani romani con cui si incontrarono in condizione di aldii, vale a dire di “semischiavi”.

Il Troja vede nei Longobardi dei violenti conquistatori che uccidevano i proprietari di terre per sostituirsi ad essi. Il Manzoni descrive vivamente la violenza dei Longobardi dicendo “cui fu ragion l’offesa” e l’Hartman dice: “Confiscarono i beni di popoli inermi dispersi, immiseriti, incapaci di resistenza e si stanziarono stabilmente nelle loro campagne abbandonate”.

La città poi era lasciata alla discrezione e cupidigia dei duchi longobardi che uccidevano i proprietari per sostituirsi ad essi nel dominio delle terre e degli oggetti preziosi.

La romanizzazione di questo mondo di barbari sarà opera non della società latina laica, in gran parte distrutta, ma della Chiesa di Roma, che si presenterà loro come erede unica rimasta della tradizione classica romana. Fu provvidenziale che i peggiori anni delle violenze longobarde coincidessero con il pontificato di San Gregorio Magno che, contrapponendo alla violenza di quei barbari l’influenza moderatrice della Chiesa, aprì la possibilità di collaborazione con i regni dei barbari conquistatori e la via alla loro conversione nel cattolicesimo, sia pure lentamente, e quindi alla civiltà.

Tali furono le condizioni di vita per duecento anni e così, anche, dei popoli dei nostri paesi. Ammirevole, pertanto, il contegno e l’opera dei sacerdoti rimasti alle cure spirituali di quei popoli, perché seppero far fronte eroicamente a quella valanga infernale, superarne l’impeto primitivo, confortare e conservare la vita cattolica degli indigeni rimasti e poi convertire i sopravvenuti al cristianesimo romano.

AI Longobardi succedettero i Franchi, pur essi barbari ma già ammansiti dalla fede cristiana e quindi assai meno pericolosi socialmente e moralmente.

Nei duecento anni e più di regime longobardo nulla di speciale balza fuori da segnalare per la storia di Pogliano che, essendo situata tra Milano e Pavia (capitale del regno longobardo) avrà avuto senza dubbio, col contatto inevitabile coi nuovi padroni, le sue particolari vicende di vita sociale.

 IL SACRO ROMANO IMPERO E LE INVASIONI DEL BARBAROSSA

Nell’anno 892, compare fugacemente nelle cronache il nome di Pietro Scavino di Pogliano che certamente doveva essere un personaggio di primo piano negli affari pubblici di Milano, perché risulta una personalità che gode la piena stima e fiducia del conte Rotgero. L’illustre poglianese era stato incaricato per la risoluzione di una grossa questione davanti al conte Sigfredo e al visconte Rotgero di Milano sorta tra il conte stesso ed un signore di Cusago. Compito questo che lo Scavino condurrà a buona fine appoggiandosi alla grande stima che di lui aveva il conte Rotgero.

Nell’ 887 finisce con Carlo il Grosso l’impero carolingio e sarà costituito il regno italico che durerà ottant’anni circa. Parecchi i pretendenti a quel trono, parecchie perciò le fazioni suscitate e deleterie, disastrose le lotte intestine e l’Italia così perdette presto quella parvenza di libertà e autonomia che aveva acquistato.

Nel 962, Ottone I di Sassonia, vincendo Berengario II re d’Italia, si insediava al suo posto, riuniva l’Italia alla Germania e ricostituiva il   Sacro   Romano Impero, non più orientato verso la Francia ma unicamente, e per secoli, verso la Germania. E sarà sempre forte il     germanesimo nel   medioevo, anche se il papato, perseguendo una politica di collaborazione, si adopererà per romanizzarlo il più possibile.

Agli Ottoni di Sassonia, nel 1024 succedettero nel governo imperiale i Salici di Franconia fino al 1125. Lotario III, dei Supplimburgo di   Sassonia, resse l’impero fino al 1137. Dal 1138 subentrarono gli Hohenstaufen di Svevia. Nel 1152 fu nominato imperatore Federico       Barbarossa.

Diamo alcune notizie storiche sulla distruzione di Milano e dei nostri paesi voluta dal Barbarossa e compiuta dalle sue milizie negli anni 1161 e     1162.

A quel tempo Milano era un libero Comune e i milanesi non volevano perdere affatto il dono così prezioso della loro libertà istituzionale civile che   era costata loro sacrifici e sangue.

Ma sappiamo dalla storia che non tutte le città lombarde erano con Milano contro l’imperatore Barbarossa, e “quella situazione di dolorosa divisione, il Barbarossa, ch’era uomo scaltro, d’ingegno e maestro di guerra, seppe sfruttare abilmente per i suoi piani”. (Ettore Verga – “Storia della vita milanese”).

Di qui la lotta fra i fratelli lombardi e viciniori italiani. E davvero, già da allora, “i fratelli uccidevano i fratelli”.

Il Barbarossa sfruttò abilmente questa divisione fra le città lombarde e le vicine piemontesi, per la restaurazione del decaduto prestigio imperiale.

E la lotta durò per un ventennio, ricca di drammatici episodi, perché il Comune di Milano era saldo nella sua autonomia ed era geloso di tenerla.

Era Comune tanto compatto che l’appello del Papa Urbano II per la liberazione del Santo Sepolcro dalla profanazione dei Turchi, venne accolto con il massimo entusiasmo di fede dai milanesi liberi, ed un fremito intenso, indomabile vibrò fra quel nostro popolo, così che moltissimi milanesi anche delle nostre campagne, parteciparono, con i loro capi, a quella Prima Crociata, della quale fu l’anima Pier l’Eremita.

E proprio il capo supremo delle schiere crociate milanesi, dice Galvano Fiamma, avrebbe piantato per primo il vessillo di Cristo sugli spalti di Gerusalemme.

Quell’eroismo dei nostri concittadini milanesi provocò in tutta Milano e paesi limitrofi un’immensa esaltazione di animi tanto che la chiesa che un monetiere di Milano di nome Rozzone fece erigere sull’antico foro romano nel 1030 e che venne consacrata solennemente dall’arcivescovo Ariberto d’Intimiano alla Santissima Trinità, vide il cambio di dedicazione nel 1100, dopo la riconquista di Gerusalemme. L’arcivescovo Anselmo IV da Bovisio, infatti, la dedicò al Santo Sepolcro ed è la chiesa che ancora oggi si ammira a Milano, situata nei pressi dell’Ambrosiana.

Fu consacrata con inaudita solennità e l’arcivescovo, davanti al consiglio del clero e del popolo, come egli stesso dichiara in un diploma giunto fino a noi, stabilì che tale solennità si ripetesse ogni anno con processione e “Te Deum”; stabilì pure “ante magistratum”, intendendo probabilmente dire “davanti ai consoli”, per questa occasione, una tregua a tutte le contese nella città e nel contado, affinché l’andare e il venire fosse a tutti sicuro.

“E – continua Ettore Verga – di ciò non furono paghi i milanesi: si volle, l’anno 1100 organizzare una spedizione tutta di milanesi per la conquista del regno di Babilonia”. “Ultreià, ultreià!” (“Oltre, oltre!”) fu il grido di raccolta, principio di una canzone sbocciata dall’entusiasmo di quell’ora, che volò per la città e per le campagne. E la gioventù accorse anche dai nostri paesi a vestire la tunica crocesegnata.

Partirono in cinquantamila, il 13 settembre 1100, con la guida spirituale dello stesso arcivescovo Pietro II Grosolano e al comando militare del conte Alberto da Biandrate. Ma non furono fortunati. Presso l’Eufrate l’esercito milanese fu sbaragliato, il comandante Alberto da Biandrate cadde sul campo e anche l’arcivescovo venne ferito e, riparatosi a Costantinopoli, vi moriva.

Ma l’effetto morale della coesione sulle classi della cittadinanza, uscite da poco da acerbe lotte, e sul popolo delle campagne, fu senza dubbio incalcolabile.

E per questa coesione della città con la campagna e la conseguente, sia pure lenta, emancipazione dall’Impero anche dei paesi di campagna, specialmente dei più vicini a Milano, li rese più tenaci contro l’Imperatore.

Ne venne che quando il Barbarossa si accinse alla restaurazione del decaduto prestigio dell’Impero, ebbe inizio per Milano e paesi di campagna una lotta ventennale che fu piena di drammatici episodi.

“Il nostro borgo di Pogliano – ci fa sapere lo storico Paolo Buzzi – e le pianure circostanti, ricche di cereali, bestiame e legnami, soggiacquero alle barbariche scorrerie delle milizie del Barbarossa, razziatrici e distruggitrici senza alcuna pietà”.

Cesare Cantù, nella sua “Storia universale” descrivendo la preparazione dell’esercito del Barbarossa per l’assalto alla città di  Milano, accenna pure lui alle devastazioni di Nerviano e alla distruzione dei due borghi di Pogliano e Vanzago.

Della distruzione di Pogliano, ci fa sapere ancora il citato storico Paolo Buzzi, fanno fede ruderi sotterranei di antiche case  abbattute ed il rinvenimento di ossa in quantità, accumulate con attrezzi vari consunte dal tempo. Distruzione quindi radicale e  condotta senza pietà, secondo il metodo teutonico.

Il Barbarossa, per l’assalto contro Milano, provenne, con le sue milizie, dalle varie città lombarde e piemontesi che gli erano rimaste fedeli: Como, Lodi, Pavia e Novara. Queste città gli diedero braccio forte in primo luogo per la distruzione dei nostri paesi, luoghi d’avanguardia, che gli ingombravano il passo.

Lo storico Camillo Cima scrive che il Barbarossa, negli anni 1160 – 1161, con le sue truppe, fece man bassa di tutti i raccolti delle campagne vicino a Milano per un circuito di parecchie miglia.

Quindi, nei nostri paesi di Nerviano, Pogliano e Vanzago non vi rimase che un vero deserto, con le conseguenze della fame, della fuga di popolo, dello smarrimento degli animi e dello squallore di morte.

Anche Alessandro Visconti, nella sua “Storia di Milano”, scrive che: “nel 1161 Federico Barbarossa devastò certi borghi vicinissimi a Milano per bloccare la città, e lo fece con tale metodo sistematico di cui i tedeschi di ogni tempo, per i quali la guerra è lo scopo dell’esistenza, conoscono bene il segreto”.

“Milano, a quel tempo, aveva un popolo in piena ascesa sulla via del progresso, – scrive Giorgio Giulini nel suo “Arcobaleno” –  un popolo che arricchito dai commerci, unificato dalle crociate e dall’ordinamento comunale, inebriato dai successi riportati sulle città vicine, che sostenendo l’imperatore, ne volevano impedire l’ascesa, godeva di una diffusa agiatezza, di una coesione, per quei tempi notevole, e aveva acquistato quella fiducia e quella sicurezza di sé che sono impulso necessario alle maggiori imprese”.

Dopo la distruzione del nostro paese (1161) un lavoro immane attendeva quei nostri concittadini rientrati alla loro terra: “ricostruire ex novo almeno l’indispensabile per il ricovero delle famiglie rientrate e rimaste senza tetto”.

Fu un lavoro immenso, affannoso di tutti i cittadini uomini e donne e perfino dei fanciulli, per rifarsi il tetto il più presto possibile.

Faticosa perfino la ricerca del legname occorrente, perché, per tutta una vasta zona circostante, era stato fatto un vero deserto di piante, di erbe e di sabbia. I lavori di questa ricostruzione durarono perciò parecchio tempo e non vi mancò l’aiuto di Milano. Si cominciò a rimetter su case in quella che venne detta “la via Principale”. Ed era logico che si desse principio alla ricostruzione della via che stava al centro del paese. Non era certo la via imponente che oggi ammiriamo e che, con il favore universale dei poglianesi, venne nel 1949 intitolata “via Monsignor Paleari” a ricordare ai secoli il più degno nostro concittadino, il nostro Beato.

Il nome di “via Principale” venne conservato fino al 1900.

In quell’anno la via venne intitolata “via Umberto I” con deliberazione della Giunta Comunale di Pogliano a ricordare la tragica morte del “Re Buono” assassinato a Monza la sera del 29 luglio 1900 dall’anarchico Gaetano Bresci, toscano di Prato (provincia di Pistoia).

“Regicida – dice il Brunacci nella sua enciclopedia – che condannato all’ergastolo e trasferito al penitenziario di Santo Stefano, un anno dopo, disperato, si toglieva la vita”.

MEDIOEVO – I VISCONTI

Gli arcivescovi di Milano vissuti nella seconda metà del X secolo, per aumentare il loro prestigio e la loro potenza, si avvicinarono alla Germania e, di conseguenza, all’impero che assicurò loro benefici di ogni sorta.

Già l’arcivescovo Landolfo II (979-998), appoggiato al favore imperiale per difendersi dai partiti che dividevano la città di Milano, e legarsi gli ottimati dell’aristocrazia milanese, in forza della sua autorità di “messo dell’imperatore”, per cui esercitava anche, a suo nome, un vero potere temporale accanto a quello religioso, concesse ai suddetti ottimati in feudo i villaggi o pievi della diocesi, già posseduti dagli arcipreti e dai canonici della città.

Si creò così quella nuova gerarchia di vassalli dell’arcivescovo che furono i famosi capitani del popolo, detti anche “capitanei: capi delle pievi”.

Questi capitani del popolo si impegnarono a fornire all’arcivescovo armate per le sue lotte contro avversari combattivi, dentro e fuori la città. Con la creazione di questa classe privilegiata di militi (capitani) l’equilibrio delle classi di Milano e campagna si spostò, andando a favorire questa nuova aristocrazia. Da questi capitani discendono le casate dei Castiglioni, Settala, Pirovano, Brivio, Carcano, Confalonieri e Visconti le cui origini sarebbero state piuttosto modeste e non discendenti da stirpi principesche, longobarde o carolingie. Alessandro Visconti, nella sua “Storia di Milano” ci dice in proposito, che da principio dovevano essere pochi i capitani feudatari, come risulta dalle fonti storiche e dai cronisti contemporanei, ma andarono sempre aumentando perché l’arcivescovo si appoggiava a loro per la difesa e l’ordine della città.

Così ebbero un feudo sulle pievi non soltanto cittadini cospicui ma anche uomini di quelle famiglie nelle quali si perpetuava una carica pubblica, quali ad esempio “il visconte” vice conte (carica vicecomitale), il confaloniere, l’avvocato, il giudice, il notaio, ecc. ecc. Questi predicati diedero alle stesse famiglie i cognomi di Visconti, Confalonieri, Avogadri: così vennero i Visconti, capitani di Marliano; i Confalonieri, capitani di Albiate Brianza; gli Avogadri, capitani di Groppello d’Adda, ecc. ecc.

Il conferimento del capitanato di una pieve segnava, per il capitano, l’ingresso nella “Militia S. Ambrosii” ch’era un sostegno assai bene organizzato del potere temporale dell’arcivescovo. L’arcivescovado diventerà così, a poco a poco, il centro politico della vita cittadina, vale a dire come il foro di Milano.

A fianco poi della cattedrale, come dicono gli antichi cronisti, risiedevano le scuole, delle quali le prime, quelle cioè degli insegnamenti di base, si svolgevano in un atrio davanti alla chiesa maggiore (il Duomo di allora), dove maestri convenivano ad istruire fanciulli; le superiori, nell’atrio interno della chiesa stessa. Queste ultime erano dette “scuole di filosofia”.

L’espressione generica di scuole di filosofia comprendeva le diverse scienze dello scibile di allora; i maestri erano pagati dai tesorieri arcivescovili. In tali scuole, fra le materie insegnate, teneva il primo posto il diritto, necessario alla vita pratica, formatore di giudici, di notai e di altri funzionari. Così facendo l’arcivescovo, prima ancora di avere nelle mani il governo temporale, aveva uno dei più validi strumenti di dominio, ovvero l’istruzione.

I capitani del popolo finirono per accentrare in loro stessi tutta l’attività politica, amministrativa e giudiziaria della città e, quando Milano venne divisa in quartieri dette “Porte”, pare che vi fosse per ogni porta, un capitano per la vigilanza (Alessandro Visconti “Storia di Milano”).

Anche il Biscaro, a cui si deve un profondo studio dei Visconti, ammette che la dignità vicecomitale (cioè di “visconte”) con i relativi diritti fiscali inerenti, cominciò a consolidarsi in una famiglia, a guisa di beneficio – feudo, sulla fine del secolo X, e propriamente ai tempi dell’arcivescovo Landolfo (vedi sopra) e ci dà conferma che questa famiglia dei Visconti ebbe l’investitura della pieve di Marliano (Mariano Comense). Questa gente si moltiplicò con una larghezza incredibile e, per i nobili di allora, il numero era la forza.

Anche a Pogliano abitarono i Visconti.

Nell’ “Antiquario della diocesi di Milano”, conservato alla Biblioteca Ambrosiana, compilato dall’arciprete oblato Francesco Bombognini nel 1838, leggiamo che “anche a Pogliano abitò un ramo dei Visconti” e nell’ “Archivio storico lombardo” – volume 18, Sez. IV – è detto che: “I Visconti di Pogliano sono una delle numerose famiglie dei Visconti, formatesi a Milano e nelle immediate pertinenze della città: Visconti di Pogliano, di Saronno, di Cornaredo, ecc. ecc.”

Il Biscaro aggiunge che la comunanza delle origini delle varie linee dei Visconti, moltiplicatisi in Milano e nel territorio, è stabilita, oltre che dalla identità del predicato, anche dalla comunanza dei possessi.

La linea di Uberto che è quella che giunse al “fastigium supremum” della Signoria di Milano, è probabilmente anch’essa una di queste numerose discendenze formatesi a Milano e nelle immediate vicinanze.

Il Bombognini ci fa anche sapere che un membro della famiglia dei Visconti di Pogliano, e precisamente Ugo Visconti, aveva il diritto sulle “misure di Milano”, (il controllo cioè sulle derrate che entravano in città), con i relativi diritti fiscali. A proposito di queste “misure di Milano”, il cui controllo era demandato a Ugo Visconti, sia permessa la seguente nota storica che è tratta dal libro “Le meraviglie della città di Milano” pubblicato nel 1788 da Bonvesin de la Riva, frate dell’ordine degli Olivetani, celebre maestro di scuola e assai benemerito per gli studi storici:

“Il territorio intorno a Milano è di una mirabile ubertosità. Vi si raccoglie ogni sorta di grano e di legumi, in tanta abbondanza, da provvedere al sostentamento dell’intera Milano e di molti altri centri, come Como e zona e, perfino, di paesi situati al di là delle Alpi. Ne è prova il fatto che solo Chiaravalle ne raccoglie, ogni anno, tremila carri e, tutto il contado (compresi quindi anche i nostri paesi) ne raccoglie, ogni anno, più di duecentomila carri. Moltissime sono le bestie da ingrasso, abbondante il latte, il miele e la lana. Le selve, i boschi e le rive dei fiumi danno legname per ogni uso, così che soltanto di legna da ardere sono portati in città, ogni anno, più di centocinquantamila carri. Il territorio è percorso da abbondanti acque, – continua Bonvesin de la Riva – le quali servono a nutrire pesci e prelibate anguille (e il nostro fiume Olona ne era allora e fu, fino a qualche decennio di anni fa, un ricchissimo e assai redditizio vivaio).

San Carlo Borromeo, che era a conoscenza di quei ricchi guadagni, non esitò a chiedere, e ottenne con facilità, che i riservisti della pesca della zona di Pogliano donassero per i bisogni della nuova chiesa parrocchiale (l’attuale santuario della Madonna dell’Aiuto), che era stata allora in gran parte restaurata, la decima su quei pingui guadagni.

“Le stesse acque irrigano, a meraviglia, prati e giovano a far girare mulini che sono più di novecento e hanno tremila ruote” (vedi A. Visconti).

N.B.: tra i mulini a cui si accenna erano compresi certamente i parecchi di Pogliano, fra i quali teneva un posto di certa importanza, quello delle religiose Olivetane, consorelle di congregazione di Bonvesin de la Riva.

E continua Bonvesin de la Riva: “Le vigne producono vino in tanta abbondanza che ne sono mandati a Milano più di seicentomila carri ogni anno”.

Vi erano a Milano mille negozianti al minuto, trecento fornai, quattrocentoquaranta macellai. Il consumo della carne è stato sempre ragguardevole a Milano, in confronto al resto d’Italia. Le condizioni del clima danno un forte incremento al consumo carneo. Molte spezie vengono consumate perché piacciono a Milano i condimenti forti.

Milano nel secolo XIII era una città di dodicimila case, aveva sessanta porticati, parecchi dei quali per i mercati, aveva duecento chiese con centoventi campanili, quattordici conventi, quindici ospedali e… conservava la forma circolare “la sua rotondità topografica era simbolo di perfezione”.

Quindi Ugo Visconti, addetto a quei tempi alle misure della città di Milano, e si intende, con i conseguenti diritti fiscali, aveva davvero un bel carico di faccende da sbrigare e insieme un pingue incasso.

Ugo Visconti, si rendeva defunto nel 1256 e veniva sepolto a Pogliano.

La famiglia dei Visconti di Pogliano visse qui fino al principio del secolo XVI: il ramo era quello che discendeva da Anselmo Visconti, detto nella storia di Milano “Illustre Cavaliere”. Eriprando Visconti, invece, sarebbe il capostipite del ramo che avrà nei secoli successivi la direzione della cosa pubblica di Milano e che la porterà alla nota grandezza storica, specialmente quando nel ramo si inseriranno gli Sforza col glorioso duca Francesco Sforza, sposo di Bianca Maria Visconti figlia di Filippo Maria Visconti.

Tra le numerose discendenze dei Visconti formatesi a Milano e nelle immediate vicinanze della città sulla fine del XII secolo si annoverano anche quelle di Saronno, Cornaredo, ecc. ecc. La discendenza di Uberto era probabilmente quella tradizionale, che avrebbe partecipato ai principali avvenimenti cittadini.

Nel 1302 si ritirò nella quiete del territorio e del palazzo di Pogliano, Pietro Visconti grande cavaliere e grande rivale di Matteo Magno Visconti, dopo un pubblico decreto di bando dalla città di Milano di tutti i Visconti unitamente ad un gran numero di loro aderenti. Erano questi gli ultimi tentativi di rivalsa dei Torriani. Con la fine politica di Matteo e con la forza delle sue armi e con la strategia e forza d’armi del figlio di lui Giovanni arcivescovo (1342 – 1354) la signoria dei Visconti si insedierà saldamente e stabilmente per duecento anni circa al governo della signoria di Milano, che poi diverrà il più potente ducato d’Italia.

Di questa discendenza sono famosi i nomi di Obizzo, Ottone arcivescovo, Andreotto, Pietro (ritiratosi a Pogliano, morto e sepolto a Pogliano nel 1302), Matteo il Grande, il di lui figlio Marco ardente capitano comandante del castello di Rosate (di questo castello non restano che alcuni ruderi ma è sempre un segno indubbio della potenza di ascesa dei Visconti) e Giovanni Visconti, arcivescovo di Milano dal 1342 al 1354.

A Giovanni Visconti succederà come arcivescovo nel 1354 Roberto Visconti dei Visconti di Pogliano, figlio di Antonio e Dafne Gentile. All’arcivescovo Roberto Visconti si accoppia per la grandezza un altro personaggio e cioè lo zio omonimo (Roberto lui pure), arciprete del capitolo metropolitano assunto a quell’altissimo ufficio dall’arcivescovo Francesco I da Parma (predecessore di Giovanni Visconti) per la grandissima stima e fiducia che universalmente riscuoteva.

Scrivendo di Roberto Visconti zio, lo storico gesuita Padre Fedele Savio, riferisce il giudizio che di lui lasciò scritto lo storico contemporaneo Goffredo da Bussero:

L’arciprete della metropolitana milanese, Roberto Visconti, succeduto nell’alto ufficio a Abrico Scaccabarozzi, era uomo di tale valore per sanità, dottrina e prudenza da essere degno di divenire Papa. “Robertus ille qui digne esset foeri Papa”. Tanta era la considerazione che di lui nutriva l’intero Venerando Capitolo Metropolitano e tanta la fiducia che poneva in lui che aveva fatta sua sede ordinaria per le adunanze capitolari la stessa casa dell’arciprete “Domus Roberti archipresbiteri in qua consuetum est dictum capitolum adunari”.

Il nostro arcivescovo, Roberto Visconti, ebbe l’altissimo onore di incoronare con la corona ferrea (custodita nel duomo di Monza) re d’Italia, il giorno dell’Epifania del 1355, nella basilica di S. Ambrogio, l’imperatore Carlo IV di Lussemburgo (che ripartirà poi subito dopo verso Roma per ricevere la corona imperiale del Sacro Romano Impero dal cardinale Pietro di Beltrando, a nome di Innocenzo VI che non si mosse da Avignone). Alla cerimonia di incoronazione a re d’Italia in Sant’Ambrogio, per invito dello stesso arcivescovo, pronunziò il discorso di circostanza il Petrarca che dimorava a Milano da un anno e che godette della protezione e amicizia intima del nostro arcivescovo per sette anni.

Il palazzo dei Visconti doveva essere certamente situato, almeno nei primi tempi della loro attività a Pogliano, verso l’Olona, come ne fanno fede le fondamenta di antiche costruzioni ora abbattute. Si accorsero di ciò anche i costruttori della nuova chiesa parrocchiale, quando trovarono non poche difficoltà nel rompere il terreno per infilarvi i pali in cemento armato per le fondamenta salde dell’edificio.

Presentano poi segni di maggiore antichità le case che stanno verso l’attuale santuario Madonna dell’Aiuto, e probabilmente un bel gruppo di abitazioni stavano in antico attorno e nei pressi del vecchio cimitero, dove era situato il nostro “templum vetustissimum”, l’antichissima chiesa parrocchiale di S. Pietro, della quale parla anche San Carlo raccomandando molto ai poglianesi la conservazione a cagione della sua antichità. Non potevano le case estendersi verso il fiume, probabilmente, per il fatto che la tenuta dei Visconti ne impediva le costruzioni.

Qualche rampollo della famiglia dei Visconti, oramai semplici feudatari, decaduti quindi dall’antico splendore, si trovava ancora a Pogliano ai tempi di S. Carlo. Dagli atti, infatti, delle visite di S. Carlo, conservati nell’archivio arcivescovile, si rileva per esempio, che un certo sacerdote Galeazzo Visconti, figlio di Aloisio e di Madonna Elisabetta (una donna di palazzo?) era cappellano di S. Quirico (l’attuale sussidiaria di S. Giuseppe) di patronato Visconti. Dal carteggio risulta che il sacerdote in parola era nato a Pogliano il 25 marzo 1523, e che essendo irregolare, certo non per colpa sua, ma dei suoi genitori, onde poter procedere agli ordini sacri, secondo il diritto canonico, ad essere ammesso nel beneficio della cappellania viscontea dei S. Quirico di Pogliano e in quella di S. Giovanni Battista di Corbetta, dovette domandare a Roma ben tre dispense: la prima per essere ammesso alla Sacra Tonsura, onde rendersi chierico; la seconda per poter ricevere il suddiaconato e la terza per il presbiterato o sacerdozio.

Le dispense vennero concesse dai Papi Clemente VIIPaolo III, e Pio IV. In un elenco di famiglie di Pogliano fatto compilare dallo stesso S. Carlo nella prima visita pastorale, figura anche quella dei Visconti.

Comunque, è certo che durante il ducato di Francesco II Sforza (1495 – 1535), ultimo duca di Milano, i Visconti erano ancora feudatari di Pogliano.

LE PESTILENZE

Il ducato di Milano fu dominato dagli Spagnoli per circa due secoli, nei quali la popolazione scemò più che metà, e in luogo della prosperità industriale e commerciale, tanto invidiata dalle altre signorie d’Italia, subentrò la miseria più squallida.

I nuovi feudatari e proprietari dei nostri paesi erano veri padroni e l’autorità amministrativa o si incentrava in loro o era nelle mani di gente di loro emanazione. E il popolo tirava avanti succube, senza voce, povero.

Gravi epidemie pubbliche contribuirono a maggiormente prostrare il popolo: particolarmente gravi le pestilenze del 1576, durante il pontificato di S. Carlo, e del 1630, essendo arcivescovo il cardinale Federico Borromeo, cugino di S. Carlo.

Nella prima pestilenza, accanto all’arcivescovo, si distinse per eroismo di carità e totale dedizione per l’assistenza degli appestati, il nostro conte Paolo Camillo Marliani; in quella del 1630, l’eroe della carità nella zona veramente offertosi fino alla morte per i suoi figli, fu il nostro parroco don Pietro Martinoli, splendida figura di sacerdote, intelligentissimo e poeta umanista di valore.

Il parroco don Martinoli, oriundo del Canton Ticino (Svizzera), era un fiore di vocazione al sacerdozio della prima schiera di giovinetti svizzeri portati da S. Carlo a Milano perché fossero educati nel seminario elvetico, da S. Carlo stesso fatto costruire per i chierici della porzione di territorio elvetico dipendente dalla autorità spirituale dell’arcivescovo di Milano. Don Pietro Martinoli fu un fiore tra i più belli che verrà poi colto, maturo per il sacerdozio, dall’immediato successore di S. Carlo, l’arcivescovo Mons. Gaspare Visconti: consacrato sacerdote fu dapprima parroco a Faldo (Svizzera) fino al 1610.

A Faldo si darà con non comune zelo per le anime di quel popolo e il cardinal Federico Borromeo, conosciutone il valore, resasi vacante la nostra parrocchia per la morte del parroco don Bartolomeo Bicetti, successore di don Ambrogio Monti, lo donerà a Pogliano nel 1610 come parroco, anche per l’interessamento del conte Marliani. Il conte P.C. Marliani si rese defunto nel 1617 e gli successe, come feudatario, il figlio Luigi. A Pogliano rimase parroco per venti anni, dal 1610 al 1630. Dopo la peste del 1630, in premio della sua totale dedizione, durante tutto il tempo del terribile morbo, che infierì fortemente anche in questi nostri paesi, venne promosso dal cardinal arcivescovo Federico Borromeo, prevosto-vicario foraneo di Nerviano, dove rimase fino alla morte, avvenuta nel 1636.

Nel catalogo delle provviste dei benefici dopo la pestilenza dell’anno 1630, al numero 7 leggiamo:

“Don Pietro Martinolo Curato di Poiano prevosto della prepositurale di Nerviano per haver havuto cura degli appestati et poveri di detta prepositura (di tutta la zona, quindi, non solo della sua parrocchia di Pogliano), facendogli molte elemosine, et particolarmente gli faceva portare dei calderoni di minestra (povera gente, i superstiti non avevano più niente!) che egli medemo gli distribuiva, et havendo suplito alla cura di quelle anime dopo la morte del prevosto, alla morte del quale fu assistente (morto di peste) dopo avergli amministrati i sacramenti come ha attestato un frate mandato colà e per quella cura, et s’è inteso per altre parti.”

Poche parole, semplici ma che in sé racchiudono un poema di eroica carità di Cristo.

Lo stesso parroco, come abbiamo detto, era un letterato e latinista insigne (diremmo oggi “umanista”) molto apprezzato dai colleghi, e diede anche alle stampe qualche sua opera che riscosse applausi al suo tempo. Di queste opere, per quanto si sia scrutato, non si trova traccia né nell’archivio parrocchiale di Pogliano né in quello di Nerviano. Erano invece conservate copie di due volumetti in versi latini alla biblioteca ambrosiana. (l’essere conservate all’Ambrosiana è prova che le opere valevano).

Don Giulio Magni, negli anni Sessanta del secolo scorso, incaricato dal Rev.mo Mons. Martinoli, vicario generale della diocesi di Lugano, di far ricerche in merito, dopo aver rovistato invano nell’archivio parrocchiale, si rivolgeva alla Biblioteca Ambrosiana, dove trovò traccia di due operette collocate al reparto F, X, 21. Erano due operette di splendide poesie latine dal titolo: 1) De Sancto Carolo carmina nonnulla; 2) De Gasparo Vice comiti et alia de Valle Tellina etc.; editi a Milano, tipografia Nava, 1620. Ma sotto la scheda, presentata dal rev.mo Mons. Castiglioni, prefetto della Ambrosiana, vi era la nota dolorosa: “Abbruciati nell’agosto del 1943, a causa del tremendo bombardamento eseguito su Milano dagli anglo-americani, che investì e annientò un intero reparto della Biblioteca Ambrosiana, quello che proprio aveva in custodia anche quelle opere”.

Una piccola traccia della musa poetica umanista del grande parroco, poi prevosto di Nerviano, può vedersi sul frontale della cappella del Lazzaretto di Nerviano, da lui fatto costruire come monumento funebre perenne ai moltissimi falciati via dalla terribile pestilenza, e sepolti in quei campi. Eccovi l’iscrizione commovente: “Quod miseranda lues, Federico Primo Praesule, abstulit et vivis hisce teguntur agris. Quisquis es, hic grassus, hic mente fige viator. Hic miserere tuis, hic meditare tibi”. Traduzione: “Quelli che la terribile peste, essendo arcivescovo di Milano il Card. Federico Borromeo strappò ai vivi, anche in questi nostri paesi, sono sepolti in questi campi. Qualunque tu sia, o passante, qui venuto, qui abbi pietà dei tuoi, qui medita anche per te”. Sintesi di stupenda predica ascetica!

Vi era un altro lazzaretto per la parte più a nord della nostra zona, ed era situato a Garbatola. L’eroico assistente di quel Lazzaretto fu il parroco don Prandoni di Barbaiana. Come don Martinoli divenne prevosto di Nerviano, don Prandoni fu nominato prevosto di S. Giorgio su Legnano.

“È impossibile – scrive mons. Castiglioni nel suo libro “Il cardinal Federico Borromeo” – precisare quante vittime abbia mietuto la peste del 1630 in Milano, perché i registri parrocchiali erano tenuti allora con non soverchia diligenza e, per di più, in quell’anno fatale, sia per la morte di molti parroci, sia per la confusione generale, contengono molte lacune. Il calcolo più modesto dà, per Milano, il numero di 86.000, di modo che la metropoli lombarda si ridusse nel 1631 a non più di 64.000 abitanti. Più difficile ancora torna il computo nelle terre del ducato, colpite più o meno dal furore del contagio: forse non si esagera facendolo ascendere a mezzo milione. Dei soli parroci della città morirono i due terzi e altrettanto dei coadiutori.

LA CONFRATERNITA DEGLI UOMINI

La confraternita degli uomini fu istituita nel 1100 circa: tempi duri per la Chiesa, a causa della politica instabile dei governanti. Fu un periodo nel quale la vita cristiana andò in grande decadenza; di conseguenza, si sentì impellente il dovere di una logica sana reazione da parte della popolazione, sotto la guida degli arcivescovi.

Da qui il sorgere di potenti organizzazioni a difesa del patrimonio cristiano, specialmente fra gli uomini, i cui soci, essendo tanto uniti fra loro per fede e carità, si chiamavano ed erano realmente “Confratelli”.

I confratelli organizzati si diffusero presto in tutta la diocesi di Milano e nelle suffraganee, chiamandosi “Disciplini”. Dovevano rispettare regole severe che obbligavano i soci a:

  • una vita integrale di pratica cristiana sia come individui che come famiglie;
  • fiancheggiare il parroco in tutte le opere di bene, particolarmente in quella della santificazione domenicale da parte di tutti i parrocchiani;
  • assistere la gioventù, specialmente maschile, perché tutta fosse presente al catechismo domenicale;
  • tenere ordinate le processioni;
  • vigilare che fosse tenuta chiusa l’osteria nelle ore delle funzioni di chiesa;
  • invigilare sull’ordine morale della popolazione.

Stretti attorno al sacerdote essi erano il direttorio di tutta la vita dell’apostolato parrocchiale. Si adoperavano per tenere disciplinata l’attività cristiana del loro paese, invigilavano che le funzioni di chiesa si svolgessero con ordine e ottenevano che tutta la gioventù fosse presente, con gli anziani, alle pratiche festive della religione.

In quei tempi nessun giovane disertava i doveri religiosi domenicali e l’istruzione catechistica che si svolgeva, da noi, per i giovani, nella chiesa di S. Maria (l’attuale santuario Madonna dell’Aiuto), in custodia agli stessi Disciplini; per le donne e le ragazze era tenuta nella chiesa dei santi Quirico e Giulitta (l’attuale S. Giuseppe), per gli uomini anziani nella chiesa principale di S. Pietro (l’antichissima parrocchiale).

Dal 1400, epoca umanistica, ai giovani, dopo la lezione di religione, si insegnò anche a leggere, a scrivere e a fare i conti. Così, a cura della Chiesa, anche per i figli del popolo si provvedeva ad insegnare almeno le prime nozioni del sapere.

La confraternita dei Disciplini diventò “Confraternita del Corpus Domini” dopo la grande diffusione del culto eucaristico, a seguito del famoso miracolo di Bolsena, e dopo le affermazioni di certi filosofi che poi sfociarono, col luteranesimo, in totali negazioni contro la realtà eucaristica.

Condotto a termine il concilio di Trento, S. Carlo la riorganizzò secondo i valori delle nuove leggi conciliari e la denominò “Confraternita del Santissimo Sacramento”, e ne volle accentuare le pratiche della pietà eucaristica e la loro speciale funzione di guardie del SS. Sacramento, contro le negazioni luterane delle verità dell’Eucaristia.

Il priore della confraternita, a quel tempo, era un’autorità rispettabile nei paesi.  Dalla legislazione spagnola le confraternite erano riconosciute enti giuridici capaci di possedere e a Pogliano possedevano parecchi terreni.

Le confraternite vennero denominate “Scuole del Ss. Sacramento” perché divennero anche vere scuole di catechismo, che veniva insegnato con chiarezze di idee e profondità di dottrina. In quelle stesse scuole veniva pure insegnato, ai partecipanti, a leggere e a scrivere.

La scuola del SS. Sacramento fu sempre piena di vita in Pogliano sia dal lato femminile che dal maschile: negli anni ’60 del XX secolo la femminile constava di oltre quattrocento consorelle, la maschile di un centinaio di confratelli, del quale un bel gruppo era ancora di fervoroso spirito di vita secondo la Regola-Statuto.

Nel 1626, il Card. Federico Borromeo, in visita pastorale, consegnò ai nostri confratelli una nuova copia delle Regole (era stata smarrita la forma consegnata da S. Carlo stesso nl 1582).

In quell’adunanza di soci confratelli, il Cardinal Federico Borromeo espresse il più ampio elogio alla confraternita per il numero, quasi totale, degli uomini poglianesi partecipanti, e per lo spirito di vita che li animava.

ORDINAMENTO DEL COMUNE DAL RINASCIMENTO ALL’ETA’ MODERNA

Negli “Statuti delle acque e delle strade del contado di Milano” scritti nel 1346 “Poliano risulta incluso nella pieve di Nerviano e viene elencato tra le località cui spetta la manutenzione della “strata da Rò” come “el locho da Poyano”. Nei registri dell’estimo del ducato di Milano del 1558 e nei successivi aggiornamenti del XVII secolo, Poliano risulta ancora compreso nella medesima pieve. Nel 1751 l’apparato amministrativo del comune, che contava circa 750 anime, era costituito da un’assemblea di tutti i capi di casa, da un console, tutore dell’ordine pubblico, e da un consiglio composto da due sindaci rurali e da un consigliere, eletti dall’assemblea dei capi di casa, al quale erano delegate mansioni di carattere esecutivo: in collaborazione con i primi estimati, tale consiglio si vedeva infatti delegate l’amministrazione del patrimonio pubblico e la “vigilanza sopra la giustizia dei pubblici riparti”. Un cancelliere, residente in loco, ed un esattore, scelto ogni tre anni con asta pubblica, completavano l’apparato amministrativo: al cancelliere la comunità raccomandava la compilazione e ripartizione dei carichi fiscali, all’esattore tutte le operazioni connesse alla riscossione delle imposte, esatte solo dopo essere state approvate e firmate dal consiglio; la custodia delle pubbliche scritture era infine affidata al primo estimato. A metà del XVIII secolo il comune, infeudato dal 1538, era sottoposto alla giurisdizione del podestà feudale residente in Milano ed a quella “di maggior magistrato” del podestà di Milano, presso la cui banca criminale il console era tenuto a prestare ogni anno l’ordinario giuramento.

 

Nel dizionario di Enrico Casanova delle province contenenti l’antico ducato di Milano alla lettera P (Pogliano), leggiamo: “Il 2/10/1538, con strumento rogato da Giuliano Pessina, notaio camerale, il feudo di Pogliano era venduto a Castellano Maggi, uno dei più influenti senatori della camera ducale e potente uomo in danaro, che lo comperava per sé, per i suoi eredi e successori, et quibus dederit, col patto di grazia a favore della camera ducale per dodici anni”.

La vendita era fatta direttamente dalla camera ducale, perché il feudo era stato incamerato dal senato ducale.

Perché il feudo di Pogliano fu venduto? Alla morte di Francesco II Sforza (1/11/1535), ultimo Duca di Milano, che non aveva eredi, finiva dopo tanti anni di gloria, una delle più splendide famiglie regnanti del Rinascimento. Carlo V, Imperatore del Sacro Romano Impero, stando a Napoli riceveva la notizia della morte del Duca da una delegazione milanese e insieme riceveva dalla stessa a nome di Milano, l’offerta del Ducato. L’imperatore non celò la sua soddisfazione per questa offerta che gli permetteva di annettere alla Spagna una regione per la quale si era tanto combattuto e sparso molto sangue.

Il 6 dicembre 1535, Antonio De Lejva prendeva possesso del Ducato in nome dell’Imperatore col titolo di “Luogotenente Cesare et Supremo Signore del Governo Generale”.

Da quella data la vita pubblica a Milano era ridotta al niente perché guerre, paci, alleanze venivano decise a Madrid: lo stato milanese, sostanzialmente, era divenuto una colonia di sfruttamento della Spagna e la storia di Milano ridotta ad una storia provinciale. Molti nobili del vecchio regime vennero travolti da confische di beni o da esecuzioni capitali, altri vivevano profughi in città italiane. La nobiltà subì quindi una crisi gravissima, ed il regime feudale, già in difficoltà all’epoca signorile, finì con l’impoverirsi del tutto. Inaridite erano le fonti della ricchezza e prosciugate in breve le immense ricchezze del Ducato. Così troviamo che il feudo di Pogliano alla fine del 1535, come gli altri, era a disposizione della Camera Ducale.

Nel 1538 saltò fuori Castellano Maggi, uno dei massimi calibri del Senato Ducale, pronto a comprare il feudo di Pogliano. Il magistrato straordinario ducale, a nome dell’Imperatore Carlo V, a motivo dell’ingente bisogno di fondi per lo stato e delle reazioni sediziose e sempre più minacciose dei militari mercenari, specialmente germanici, da molto tempo non soddisfatti né per le dovute retribuzioni pattuite per il servizio, né per i premi al valore promessi, vendette con facilità a Castellano Maggi parecchi fondi del Ducato nelle vicinanze di Milano, che il compratore pagò subito, accettando anche riserve di livelli e decime sui frutti per la Camera Ducale.

Cronistoria del feudo di Pogliano:

10 ottobre 1538 Il feudo era rivenduto dal Castellano Maggi al marchese Francesco Grassi.

15 ottobre 1538 Il notaio Evangelista Crivelli firmava il rogito della sopra menzionata vendita alle stesse condizioni.

7 giugno 1658    Diploma del re Filippo IV, interinato il 4 settembre 1659, per il M. p. mpr. a Francesco Grassi, di Alessandro, di Paolo Cammillo, del suddetto Francesco.

10-23 marzo 1676 Apprensione per confisca del marchese Alessandro Grassi, bandito capitalmente.

2 settembre 1681 Ordinanza del M. S. per il rilascio del feudo a Regina Grassi, figlia del predetto Alessandro.

23 dicembre 1681 Rogito firmato da Francesco Giorgio Ottolini not. cam. per il possesso alla stessa.

12 dicembre 1682 Ordinazione del M. S. per la apprensione del feudo per morte della suddetta Regina.

23 febbraio 1687 Rogito firmato da Francesco Vallotta not. cam. di apprensione.

28 aprile 1687 Ordinazione del M. S. per il rilascio alla marchesa Giulia Grassi Marliani, ava paterna ed erede di Regina.

25 maggio 1687 Rogito firmato da Giuseppe Benaglio, coad. del not. cam. Francesco Vallotta, per il possesso della suddetta Giulia.

6 maggio 1702 Testamento della stessa, col quale istituisce erede nei beni e nel fd. il capitano Rodolfo

Grassi, figlio naturale del marchese Francesco Grassi, suo consorte premorto.

22 novembre 1730 Rogito firmato da Bartolomeo Borroni di cessione del feudo a conto dote fatto da Francesco Grassi Marliani al barone Girolamo Sanz.

29 gennaio 1731 – Ordinazione del M. S. per il possesso al Sanz, che lo aveva avuto come parte della dote di Regina Grassi., sua moglie, salvo sempre il diritto di redimere a favore della R. C.

2 agosto 1733 Rogito firmato da Filippo Delmati not. Cam., per il possesso al Sanz. I fuochi erano 100.

1782 – Devoluzione per morte di Carlo Sanz senza m.

La famiglia Grassi abitava nella cascina che da loro prese il nome (GRASSINA). Il complesso, completamente restaurato è ancora presente a Pogliano ubicato nell’omonima via Grassina.

 

DALLA DOMINAZIONE AUSTRIACA AI GIORNI NOSTRI

Durante il primo periodo di dominazione austriaca, nel compartimento territoriale dello stato di Milano (editto 10 giugno 1757), il comune di Poliano risulta inserito nel ducato di Milano, pieve di Nerviano.
Nel 1771 il comune contava 717 abitanti (Statistica anime Lombardia, 1771).
Con il successivo compartimento territoriale della Lombardia austriaca (editto 26 settembre 1786 c) Poliano rimase nella pieve di Nerviano, inclusa nella provincia di Milano.
In seguito al nuovo compartimento territoriale per l’anno 1791, il comune venne confermato nella pieve di Nerviano, compresa nel XXVIII “distretto censuario” della provincia di Milano (Compartimento Lombardia, 1791).

Nel ventennio di dominazione francese, con la legge 26 marzo 1798 di organizzazione del dipartimento del Verbano (legge 6 germinale anno VI b) il comune di Pogliano venne inserito nel distretto di Saronno.
Soppresso il dipartimento del Verbano (legge 15 fruttidoro anno VI a), con la successiva legge 26 settembre 1798 di ripartizione territoriale dei dipartimenti d’Olona, Alto Po, Serio e Mincio (legge 5 vendemmiale anno VII), Pogliano fu trasportato nel dipartimento d’Olonadistretto di Sedriano.
Il comune, in forza della legge 13 maggio 1801 di ripartizione territoriale della Repubblica Cisalpina (legge 23 fiorile anno IX), venne poi incluso nel distretto IV del dipartimento d’Olona, con capoluogo Gallarate.
Con l’attivazione del compartimento territoriale del Regno d’Italia (decreto 8 giugno 1805 a) Pogliano rimase nel distretto IV di Gallarate, inserito nel cantone II di Saronno: comune di III classe, contava 661 abitanti.
Secondo quanto disposto dal decreto di aggregazione e unione dei comuni del dipartimento d’Olona (decreto 4 novembre 1809) al comune di Pogliano, ancora compreso nel cantone II del distretto IV di Gallarate, venne aggregato il comune soppresso di Vanzago: la sua popolazione raggiunse pertanto le 1.098 unità.
In forza del successivo decreto di concentrazione e unione dei comuni del dipartimento d’Olona (decreto 8 novembre 1811) il comune di Pogliano, che restò a far parte del distretto IV di Gallarate, cantone II di Saronno, risulta formato dagli aggregati di Pogliano, Vanzago e Mantegazza, in precedenza unita ad Arluno: gli abitanti del comune salirono a 1.338.

Tornata la dominazione austriaca, con il compartimento territoriale delle province lombarde del regno Lombardo-Veneto (notificazione 12 febbraio 1816) il comune di Pogliano venne inserito nella provincia di Milano, distretto IV di Saronno.
Il comune, che aveva convocato generale, rimase nel distretto IV di Saronno anche in seguito al successivo compartimento territoriale delle province lombarde (notificazione 1 luglio 1844).
Nel compartimento territoriale della Lombardia (notificazione 23 giugno 1853) Pogliano risulta ancora compreso nella provincia di Milano, distretto XIV di Saronno. La sua popolazione ammontava a 1.286 abitanti.

In seguito all’unione temporanea delle province lombarde al regno di Sardegna, in base al compartimento territoriale stabilito con la legge 23 ottobre 1859, il comune di Pogliano Milanese con 1.318 abitanti, retto da un consiglio di quindici membri e da una giunta di due membri, fu incluso nel mandamento IV di Rho, circondario IV di Gallarate, provincia di Milano.
Alla costituzione nel 1861 del Regno d’Italia, il comune aveva una popolazione residente di 1.533 abitanti (Censimento 1861). In base alla legge sull’ordinamento comunale del 1865 il comune veniva amministrato da un sindaco, da una giunta e da un consiglio. Nel 1867 il comune risultava incluso nello stesso mandamento, circondario e provincia (Circoscrizione amministrativa 1867). Popolazione residente nel comune: abitanti 1.432 (Censimento 1871); abitanti 1.604 (Censimento 1881); abitanti 1.786 (Censimento 1901); abitanti 1.989 (Censimento 1911); abitanti 2.038 (Censimento 1921). Nel 1924 il comune risultava incluso nel circondario di Gallarate della provincia di Milano. In seguito alla riforma dell’ordinamento comunale disposta nel 1926 il comune veniva amministrato da un podestà.
Sino al 1927 il comune mantenne la denominazione di Pogliano e, successivamente a tale data, assunse la denominazione di Pogliano Milanese (R.D. 3 febbraio 1927, n. 182). Popolazione residente nel comune: abitanti 2.504 (Censimento 1931); abitanti 2.506 (Censimento 1936). In seguito alla riforma dell’ordinamento comunale disposta nel 1946 il comune di Pogliano Milanese veniva amministrato da un sindaco, da una giunta e da un consiglio. Popolazione residente nel comune: abitanti 3.132 (Censimento 1951); abitanti 4.090 (Censimento 1961); abitanti 5.418 (Censimento 1971); abitanti 6.720 (Censimento 1981); abitanti 7.382 (Censimento 1991); abitanti 7.828 (Censimento 2001); abitanti 8.141 (Censimento 2011). Nel 2021 gli abitanti sono 8.329.

POGLIANO NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE

Pogliano non fu risparmiata dalla tragedia della Prima Guerra Mondiale: su una popolazione di circa 2000 abitanti, furono ben 500 gli uomini, dalla leva del 1875 a quella del 1899, a partire per il fronte. Immaginiamoci la tristezza di un paese svuotato di quasi tutti gli uomini di età compresa tra i 18 e i 40 anni e la tensione dei loro familiari che, per mesi, non ricevevano più alcuna notizia sulla loro sorte.

43 di loro, 8 dei quali caduti in combattimento, persero la vita. Degli altri 35, 24 morirono a causa di ferite riportate in combattimento e 11 per malattia; 3 dei deceduti a causa di malattia spirarono dopo il 4 novembre 1918.

Il 1916 fu l’anno col maggior numero di perdite. Di seguito il dettaglio:

1915: 6

1916: 13

1917: 10

1918: 12

1919: 2

La classe che contò il maggior numero di caduti fu quella del 1889 con 5. Di seguito il dettaglio:

1880: 1

1881: 1

1886: 1

1887: 4

1888: 3

1889: 5

1890: 2

1891: 4

1892: 3

1893: 1

1894: 2

1895: 5

1896: 3

1897: 4

1898: 4

Il caduto più giovane fu Pastori Carlo, 18 anni, morto sul Carso il 21/08/1917 a pochi giorni dal compimento dei 19, a seguito delle ferite riportate in combattimento; il più anziano Remartini Angelo, 38 anni, deceduto per malattia nell’ospedale da campo n° 62 il 28/05/1918. Pogliano perse ben 11 ragazzi di età compresa tra i 18 e i 20 anni. Di seguito il dettaglio delle età dei caduti al momento della morte:

18: 1

19: 6

20: 4

21: 5

22: 2

23:2

24: 3

25: 4

26: 4

27: 2

28: 3

29: 2

30: 2

31: 1

36: 1

38: 1

Il primo caduto fu Canciani Angelo, morto in prigionia il 06/09/1915 a seguito delle ferite riportate in combattimento; l’ultimo Zanchi Attilio, morto di malattia nell’ospedale da campo n° 11 il 21/01/1919.

Il Carso, durante le battaglie dell’Isonzo, fu la zona più fatale ai poglianesi con 5 soldati morti e 4 dispersi, 3 dei quali in data 19/08/1917. Il 153° Reggimento fanteria fu il reparto con il maggior numero di caduti poglianesi (4).

Le famiglie con il maggior numero di caduti furono Magistrelli e Remartini, ognuna con 4 giovani scomparsi, in due casi addirittura fratelli: Magistrelli Carlo e Pietro figli di Ambrogio e Remartini Lodovico e Angelo, figli di Giuseppe.

Il parroco don Corti annotò sul liber chronicon parrocchiale parecchi fatti relativi al periodo di guerra, in particolare:

  • 7 febbraio 1915 funzione espiatoria e per ottenere la pace, ordinata da Sua Santità Benedetto XV;
  • 4 luglio 1915 FESTA DELLA VISITAZIONE – Stante la guerra modestamente e quietamente si celebrò la così detta festa del paese. Cantò solennemente la Messa il prevosto di Nerviano;
  • Nota a fine anno 1915 – «In quest’anno si doveva fare l’inaugurazione delle opere compiute e nel medesimo sempre celebrare il 25° di Santa Messa del parroco locale. A tale scopo si era già formata una commissione, ma il parroco stante l’IMMANE FLAGELLO DELLA GUERRA che ha strappato più di 300 uomini al paese, tutto sospese riservandosi di celebrare queste solennità con quella della pace stipulata, che il buon Dio presto mandi»;
  • 5 novembre 1918 ARMISTIZIO CON L’AUSTRIA – «Giorno di giubilo. Si suonarono, come il giorno prima, a distesa le campane per un’ora intera. Alla sera benedizione con discorso di circostanza tenuto dal padre Rebuzzini»;
  • 6 dicembre 1919 VENUTA DEI PROFUGHI DI GUERRA – «Furono 89 tra donne, uomini, fanciulli e fanciulle in uno stato compassionevole. Gli uomini furono alloggiati in Oratorio di san Luigi, le donne coi bambini nei locali dell’asilo, finché per famiglie saranno messi in case separate».

Lentamente si tornò alla normalità e il popolo volle ricordare i propri Caduti dedicando loro lo splendido monumento che ancora oggi si trova in piazza del Santuario.

CADUTI PRIMA GUERRA MONDIALE

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Ultimo aggiornamento: 15/06/2023, 16:11

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